domenica 10 febbraio 2013

Io e Irina


Al parcheggio sotto Piazza San Carlo la mia auto so che ci va malvolentieri. Questo principalmente perché sa che, ogni volta che vado a pagare, non posso non pensare che il prezzo del ticket supera abbondantemente il suo valore attuale.
Ma mica può opporsi, se devo andare in centro quando è troppo rischioso usare la moto, il lastricato bagnato di pioggia è spesso infìdo. E non ditemi adesso voi che le auto non pensano, antichi. Le macchine che ci accompagnano, che ci ascoltano, che sentono le nostre emozioni, le risate, le parole e che le assorbono, in qualche misura ne rimangono contagiati. Comunque la mia macchina pensa. Ed ha anche un bel caratterino, tutto sommato.

Comunque stavo dicendo che la mia macchina va malvolentieri al parcheggio di piazza San carlo.
La capisco, si vergogna poverina, e come darle torto, oltretutto. 
Quel posto stride con la situazione amara che tutti stiamo vivendo. Nel sottosuolo di Torino si nasconde infatti un paese del Bengodi concentrato sulle quattro ruote, un tripudio di macchinoni di ogni foggia, misura e colore, scintillanti e lussuose meraviglie della tecnologia meccanica ed elettronica quasi prettamente teutonica. Qualche supercar nostrana ogni tanto, sempre rigorosamente parcheggiate in prima fila, in quei posti che ti vien da chiederti come cazzo facciano, se mandino il maggiordomo filippino di casa a sdraiarsi lì alle sei per fargli trovare il posto da invidia o se paghino il cassiere per avere la pole position riservata. Sta di fatto che lì, la prima fila di quelle linde vetture messe bellamente insieme non riesce a coprire, in km percorsi, quanto si è sorbita la mia auto da sola. Da sola con me, intendo. 
E sembra farlo apposta, ma trovo sempre libero solo quel parcheggio in fondo, quello vicino al pilastro che entrarci è un casino e per uscire mi tocca tirarmi fuori dal finestrino, quello con sopra la luce al neon con lo starter in punto di morte che fa tanto quell'effetto strobo dei film dell'orrore.

Parcheggiando in un posto centrale, quell'unica volta che mi era capitato di trovarne uno libero, avevo notato, tornando indietro a recuperare la borsa dimenticata nel baule, l'espressione schifata dell'impeccabile proprietario di un'altrettanto impeccabile Maserati a fianco, rivolta alla mia vettura. Aveva camminato lungo lo spazio che le separava con fare schizzinoso, tenendosi strette le pieghe del cappotto, controllando che ci fosse una distanza di rispetto di mezzo metro almeno tra la sua meraviglia lustra e la mia tenuta insieme dallo sporco. Poi, non contento, era risalito in macchina e l'aveva spostata più in là. Probabilmente aveva paura di restar contaminato. 

In quel parcheggio, nella scala davanti alle casse automatiche da qualche tempo incontro Irina.
Io la chiamo Irina perché è il primo nome che mi è venuto in mente, vedendo i suoi occhi chiari da ragazza dell'Est. 
Irina vive lì da un po'. 
Tu scendi le scale e vedi quell'ammasso informe sistemato in disparte per non dar fastidio a chi passa. Irina si chiude una coperta addosso, si accuccia e si allontana dal mondo, appoggiata al montascale per i portatori di handicap. 
Non disturba, non fa l'accattona, non lì almeno, mi sono fatto l'idea che che quasi non si osi. Non dà fastidio elemosinando il resto dalla cassa automatica. 
Le ho parlato una volta sola una mattina, quando mi ha chiesto, con gentilezza, se con il biglietto del parcheggio potevo sbloccarle l'accesso ai bagni. Non ci son riuscito purtroppo, non ha funzionato. Mi ha ringraziato comunque, prima di tornare al suo posto.
Ho osservato velocemente il volto di una ragazza inaspettatamente giovane, con lo sguardo sereno, attento e pulito che mi ha fatto rimbalzare in testa la parola dignità, e che mi ha fatto venir voglia di chiederle ma come hai fatto ad arrivare così, chi sei, da dove vieni, dove sono un padre e una madre che non è possibile che non si interroghino per te, che cosa c'è nella tua storia, quanti sono gli sbagli che ti han portato a camminare così tanto e ad aver come meta gli ultimi gradini della scala del parcheggio di piazza San Carlo a dormire con solo il calore di una coperta addosso. Non mi son osato, non ero da solo e comunque non ne avrei avuto il coraggio comunque, e le mie domande me le sono portate con me, nei miei pensieri, nei miei film a occhi aperti che mi faccio spesso (ho firmato regie bellissime) ed in quei quattro passi che mi separavano dalla mia macchina mi sono ritrovato catapultato in una storia con me che partivo e cambiavo mille treni e stringevo mille mani per impedire la stessa sorte alla mia Ciccia diventata grande, smarrita in una città straniera. La stavo abbracciando disperatamente nella metropolitana di Lisbona quando son ritornato alla realtà, stringendo convulsamente il bordo del cruscotto. 
Complice il breve sogno agli occhi aperti, quelle che sono le mie attuali difficoltà hanno assunto una dimensione diversa. Ed anche il valore di molte cose è inaspettatamente cambiato. 
Perché io che mi lamento e dopo nemmeno dieci minuti sono comunque a prendere un caffè in uno dei bar più lussuosi della mia città mi ha fatto sentire un po' ipocrita, se vai a pensare che c'è chi, con quella manciata di spiccioli, ci campa. 
Non so le motivazioni, non so perché il viaggio di Irina sia al momento sospeso su quei quattro gradini. Non so niente di niente e non so nemmeno se si chiami Irina, ma non è quello il senso. Il senso è quello che mi ha fatto mettere in pratica un piccolo cambiamento, per tutte le volte che passo di lì. 

E con la scusa della fretta e delle tante cose da fare in studio saluto prima e rinuncio al caffè, peraltro ottimo, che mi toccherebbe comunque pagare. Esco da quegli edifici aristocratici che sanno di lusso stantio, infilo rapidamente le scale, vado a pagare il parcheggio e faccio finta di dimenticarmi il resto nella cassa automatica. 
Lo so che Irina osserva, sento lo sguardo dietro di me o forse è solo suggestione. Sento però che, subito dopo, va a recuperare piano gli spiccioli. Non mi dice niente e non le domando niente. E quella volta che invece aveva la coperta addosso che la separava dal mondo le ho fatto scivolare come per caso una banconota piccola, tra la coperta ed il muro, in modo che la potesse ritrovare tra le mani appena sveglia. 

Magari non serve a niente. Magari, come sento dire da tanti, quella ragazza in un giorno riesce a racimolare quanto io non riesco a prendere in un mese, magari la prossima volta che dovrò andar là Irina sarà sparita per sempre.
Ma mi fa piacere pensare, nei miei sogni ad occhi aperti, di essere io, a mia volta, un piccolo fotogramma del film di un altro padre che, sotto cieli lontani, sta sognando di raggiungere sua figlia.