venerdì 20 dicembre 2013

Ho messo via

Atteggiamenti, pensieri sempre troppo contorti ed alcuni bellissimi, così belli e limpidi che chiuderci sopra le ante dell'armadio e costringerli a buio e polvere fa quasi rabbia, o anche solamente un po' di tristezza. 
Ho messo via le ali, lucidato le piume accarezzandole un'ultima volta. Le avevo, certo che. Quelle che ti fan sentire a due dita dal marciapiede o dal cielo, a volte è bello che la differenza quasi non si senta. Quelle che ti fan guardare oltre, lontano, perché è solo osservando dall'alto che le distanze si riducono, le montagne sembrano meno erte, così come ogni montagna che abbia mai scalato, una volta in cima, mi ha sempre restituito il vero valore della fatica compiuta.
Ho messo via i sorrisi del cuore, quelli che partono da dentro ed irradiano di calore, che si appoggiano come un dito alle labbra perché le parole non servono, che colpiscono gli occhi e le mani e si disperdono nel vento di fuori, che non puoi far finta di, quei sorrisi lì non riesci né a nasconderli né ad imitarli mai. Che ti dan la sveglia, che alzarsi è non vedevo l'ora.
Mi rimangono quelli fatti ad arte, gli involucri di plastica, che quelli lì si che li puoi sempre trovartene un paio nelle tasche e stamparteli bene in faccia, salendo le scale di casa prima di andare incontro alla mia Ciccia, che lei ha bisogno di un sacco pieno di sorrisi miei, e non forse riesce ancora a scorgere la differenza, basta che ce ne siano. 

Ho messo via le mie scarpette per correre, le ho riposte con cura nella loro scatola. Il mio tendine di cristallo numero due reclama visite specializzate, cure costanti (e costose, ovviamente), ma tanto so già che la soluzione definitiva non potrà essere altro che l'intervento. E questa, considerata la precaria situazione economica (usando un velato eufemismo) di casa DR, semplicemente non è una priorità. Le riprenderò chissà, forse domani, forse tra un mese, un anno o mai, le variabili in gioco questa volta sono veramente troppe e non ho sufficienti energie per pensarci. E quello che è peggio che meno corro più mi si assottiglia la riserva di energie, insomma è un circolo vizioso, comunque vada perdo.
Ho messo via quel tempo che egoisticamente era solo mio e basta. L'ho messo via perché forse non è più il suo tempo, o perché non posso permettermene più ma, che buffo, non ho il tempo di preoccuparmene. Non ho particolari emozioni, mentre passano costanti i giorni, troppi e maledettamente sempre troppo in fretta, non aggiungendo né togliendo niente. Non faccio in tempo ad iniziare una settimana che quella è già finita ed un'altra ti viene incontro e passa, poi un'altra ed un'altra ancora, goccia dopo goccia. E' un non-tempo, quello con cui ho a che fare.
Osservo la neve ammantare le mie montagne, la sera in auto, mentre rilucono di vite sconosciute all'interno di tremolanti paesini sperduti chissà dove.  
Ho fatto un po' di conti con me. E non è che sia andata male intendiamoci, ho avuto mani decisamente buone ed alcune no, ma capita. Ognuno è artefice della propria fortuna dicono, non so quanto questo sia vero o serva invece da sprone, riflettendoci forse sì, almeno in parte. Penso di aver comunque da sempre quella naturale predisposizione all'autodistruzione, a cercarmi sempre le strade più contorte ed a farmi trascinare dalla corrente più veloce, ben cosciente che sarà quella sbagliata.
Ho messo via un poco del mio modo di fare, parecchio del mio modo di essere. E non è che così uno stia male, un pochino spento, meno entusiasta e sorpreso, per una volta con i muscoli ed i sensi e i nervi a riposo. Si assottigliano le differenze dei giorni, il domani perde valore come l'ieri, e adesso, semplicemente, non esiste.

Perché alla fine, non ci son cazzi, ma il discorso è poi sempre lo stesso.

lunedì 18 novembre 2013

La luna ha vent'anni

A guardarci bene, quei noi di adesso, probabilmente non sembrerebbe possibile che siamo stati gli stessi noi di quel giorno là. 
Nel curriculum professionale dello studio la data di fondazione recita 10 novembre 1993.
Me lo ricordo bene, noi leggermente in imbarazzo di fronte al notaio, con l'attesa di grandi cose a venire e la sensazione di esser vagamente fuori posto, lì in quella stanza sontuosa di quell'incredibile ufficio del centro, con le impiegate silenziosissime ed efficientissime, pronti a firmare un impegno per il nostro futuro. Nonostante tutte le mie insistenze Marco si era rifiutato categoricamente di mettersi la cravatta, l'ultima volta era stato al funerale di suo padre - solo per le cose serie - aveva troncato sul nascere ogni mia rimostranza. Allora eravamo in cinque. Molto più giovani, così spudoratamente giovani, quando la gioventù è bellezza, carichi di sogni e promesse ed entusiasmo alla vita, sorrisi subito pronti a sbocciare per un nulla e pazzia a secchi. Sbarazzini ed inesperti, molto più sorridenti al mondo, sicuramente incoscienti, questo sì, va detto, incredibilmente incoscienti, spaventosamente, vergognosamente. Ci bastava un niente, principalmente quello che importava era stare insieme e provarci, anche se non era ancora così chiaro a far cosa, e forse completamente non lo è ancora neppure adesso. Dovessi associare una parola a quel periodo mi viene in mente "leggerezza". Poche ancora le ferite, di quelle che bruciano secco, che nel corso del tempo ognuno avrebbe imparato a portare le proprie e che poi inevitabilmente, taglio dopo taglio ci avrebbero cambiato, rendendo dura e rugosa la scorza. 
Era più facile scegliere, vivere, lavorare, inventarsi, scherzare comunque, e soprattutto non prendersi mai sul serio. Era che quando chiamavano "ingegnere", avevi sempre l'aria del "chi, io?" Era tutto più nuovo, i cantieri, la gente che a volte ti stava ad ascoltare e molto più spesso no, l'inconsapevolezza di inventarsi il padrone del proprio destino, una scoperta in ogni cosa, l'essere quelli che reggono il timone senza mai aver osato affrontare il mare e senza neppure immaginare quanto sarà vasto e quante rotte riuscirai a navigare. 
Due di noi, quelli che insieme a me ci avevano messo l'anima per partire, che forse sono stati i miei amici più vicini di allora hanno smesso di crederci dopo poco. Ricordo la mia rabbia proprio con Marco, che mi aveva spiegato che quella non era "la sua società", ma semplicemente "una società" e che non valeva la pena affannarsi così tanto. 
Fulvio invece l'ho rincontrato quest'estate. E tutto questo tempo che ci ha visti lontani ha perso in un nulla forma e sostanza, lasciando solo un minimo spazio al pensiero inconcludente di come sarebbe andata se. A lui che oggi è chiamato ad affrontare prove così terribili che non so dove troverà il coraggio va il mio pensiero, forse sarebbe meno complicato se silenziosamente ci allontanassimo nuovamente, ma troppo del nostro tempo è già stato stupidamente sprecato, non sono disposto a buttarne via ancora.
  
Vent'anni di parole, quante parole sono rimbalzate fuori da quelle pareti, con differenti toni di voce, me ne ricordo molte. Vent'anni di persone, mi ricordo i volti, quanti ne sono passati, nessuno invano. In uno dei miei sogni ad occhi aperti ho organizzato fin nei minimi dettagli una cena con i miei soci e consorti al seguito, che in realtà nascondeva una rentrée con tutti, ma proprio tutti, una di quelle cose che entri in un locale silenzioso ed un po' fuori mano con due candele fioche a conferire un'aspetto desolante alla stanza e "Sorpresaaa!!!" si accendono le luci ed eccoli lì, uguali e cambiati anche loro, e poi risate ed abbracci e parole fino a tarda notte e brindisi, con gli occhi da bracco del mio socio lustri per la commozione, mentre sa che in fondo l'ho fatto per lui, perché sì è vero che faccio una gran fatica a sopportarlo, ma neanche lui, con me, cammina su un tappeto di petali di rosa. E' rimasto solo un sogno, altre priorità non l'hanno reso possibile e rimarrà intatto nei miei sogni per riproporsi tra altri cinque anni.

Vent'anni di lune, me ne ricordo a pacchi di lune, quelle dei lavori fino a tarda notte, quelle d'estate, rosse e piene  in un cielo immobile e noi sui gradini della villetta a ridere sommessamente e quelle delle albe, pallide come i nostri volti tirati, delicate e composte mentre ci osservavano malinconiche, al di là dei vetri che si affacciano su un francobollo di giardino. Mi ricordo lune sottili come una ciglia, composte e rapite, ad ascoltare parole che brillavano come rugiada. Mi ricordo  una luna accesa come un faro ed io e la mia Ciccia per la prima volta disperati e lontani, che la toccavamo con un dito per sentirci di nuovo insieme.
E guardaci adesso. A vent'anni di distanza. Vent'anni. 
Se escludiamo i tappi delle bottiglie, che allora mettevamo in fila bella ordinata sul davanzale delle finestre in alto, non è cambiato poi tanto. Sì, siamo cambiati noi, per forza, il grigio nei capelli, le rughe, l'atteggiamento man mano meno famelico, combattivo. 
Ma io no. Io che ogni botta che ti fa cadere mi fermo stordito, magari tentenno controllando i danni ma che poi mi rialzo perché non ha senso voltarsi indietro e dargliela vinta e che ostinatamente, ancora una volta, mi levo la polvere di dosso e  ricomincio a correreIo che se ci penso, che non mi sembra di aver neppure cominciato, che di cose da imparare so che ce ne sono ancora troppe, che se metto in fila i lavori da inventare, le idee più bizzarre e le rivoluzioni non la finisco più, che nonostante tutti i macigni sul cammino che sono stati questi ultimi anni ci credo, senza mezzi termini o retropensieri, mi affido alla passione ed alla volontà, credo nelle persone pulite e nell'onestà, credo in quello che siamo, in quanto è rimasto immutato e limpido ed allora non mi vien altro da dire che grazie studio delle rose, grazie mille a chi è stato parte di tutto questo ed a chi lo è adesso, grazie luna per questi magnifici vent'anni così brevi che mi sono stati regalati, solo per ciò che è troppo bello il tempo scorre così velocemente. 
Auguri luna, per questi vent'anni e auguri, studio delle rose, per ogni singolo, incredibile minuto passato qui e per quanti altri ne potranno venire. So per certo che finirà prima o poi, dovrà cambiare il vento che fa infuriare il mare di tempesta di questi ultimi tempi e le correnti impazzite. Passerà e ritornerà il sorriso, finalmente con un buon vento di bolina ad accompagnarci verso un orizzonte sereno. 

E non la smetterò molto facilmente, di guardare la luna. 


martedì 12 novembre 2013

Torino negli occhi.

Questo mio strambo mestiere ogni tanto mi riserva regali inaspettati, come nei giorni in cui mi porta ad annusare il mare, quel mio mare che il primo respiro lento e gonfio di attesa fino a farmi dolere i polmoni non è mai abbastanza, o quando mi porta a conoscere città nuove, scorci, marciapiedi, volti riflessi sulle vetrine e percorsi da assimilare. 
A volte invece, come oggi,  mi regala Torino.
La osservavo ieri sera al rientro autostradale serale, la sua singolare bellezza esaltata da un vento tagliente che aveva nascosto le nuvole lontano, con l'anfiteatro di montagne luccicanti della prima neve, la collina spazzata dalle folate rabbiose, un blu del tramonto così limpido e pulito e le mille luci fitte e tremolanti che sembravano brace scintillante. 
Torino ha pezzi di Parigi e d'Africa, ha le maestosità reali e sontuose dei Savoia ed angoli degradati. Luce e buio a portata d'occhi.
Ma prevalgono parti di questa città che mi fermano ancora il cuore, un sorriso sospeso che si appaga rapito lasciando scorrere lo sguardo. Angoli, incroci, mura antiche lì da millenni, un monumento assediato dai piccioni ai cui piedi sedersi, la calma placida del fiume ed il finto medioevo a specchiarcisi dentro. Spazi in qualche misura miei, che riconoscono i miei passi, stendendo con cura le pieghe che a volte ho dentro. 
Ho imparato a conoscerla da ragazzo percorrendola con i piedi e con gli occhi, fino a perdermi e meravigliarmi, più e più volte. E meravigliarmi e perdermi con i piedi e con gli occhi  quando posso, quando riesco a ritagliarmi una parentesi tra le telefonate e le grane e le mille cose da fare, è un lusso a cui difficilmente riesco a rinunciare.
Ci sono i lunghi viali allineati che si intrecciano a perpendicolo. Ci sono le piazze aristocratiche, severe ed ordinate di colonne, e quelle più piccole, raccolte, composte e silenziose che se ci capiti una sera d'inverno ti sembra di aver attraversato indenne un paio di secoli. C'è una piazza che, dopo, la mia vita non è più stata uguale. Ci sono i bar storici, eleganti di cristalli e salotti,  e ce n'è uno piccolo e quasi sempre gremito, con la boiserie in legno e gli specchi lavorati, i tavolini con il ripiano in marmo ed i centrini fatti all'uncinetto che se intingi il cucchiaino nel "bicerin" e lo mescoli ti guardano male. Ci sono cortili dei palazzi storici, che ognuno è storia, i mille ex voto della Consolata che da piccolo ne leggevo rapito le vicende, l'insuperabile eleganza di San Lorenzo, c'è il retro della collina di Superga con i nomi della squadra del Grande Torino. C'è una galleria che proprio non riesco ad attraversare guardando in su. C'è la Fetta di polenta fatta per ripicca, le luci sul monte dei Cappuccini e le bancarelle di libri da annusare, lungo via Garibaldi. C'è l'interno di Palazzo Carignano e le sue stelle, c'è la panchina di quella piazza che il mondo era una cornice immobile, ci sono i mille posti dove ho portato la mia moto, c'è quando ero disperato senza radici e quando invece mi sentivo al centro dell'Universo, c'è la statua della Dora che è stato il mio personalissimo escamotage per poter inserire la foto di una donna nuda all'interno della mia tesi di laurea, c'è il parco dove vado a correre, c'è il mio negozio di stilografiche, il posto del mio primo cantiere importante e quell'altro, molto più prezioso per me, che era stato un cantiere di mio padre trent'anni fa, prima di diventare mio. 
Ed i miei passi ed i miei occhi, anche oggi non hanno sbagliato. 

sabato 19 ottobre 2013

Le cose che cambiano

Le cose che cambiano sono quelle di te che, quando te ne accorgi, ti fanno fermare per pensare, con la voglia di riavvolgere il nastro e poter osservare come tutto possa già essere accaduto.
Sono tua figlia che cresce bella come solo una figlia tua sa essere e sente di non aver più quel bisogno impellente delle tue attenzioni. Sono il suo sguardo che pian piano, come un giro di vento la sera, si rivolge altrove, ed è giusto così. Ed è amaramente bello così.
Sono i tuoi capelli corti, "finalmente" come mi ha detto più di qualcuno, che ancora adesso porto la mano dietro al collo ed è strano non trovare il conforto in quel gesto che, dopo così tanto tempo era diventata abitudine.
Perché le cose che cambiano ti cambiano di dentro e fanno in fretta, corrono sottopelle, si insinuano e diventano abitudine, come questi posti diversi, con gente diversa ed in città diverse in cui la mia vita lavorativa mi ha portato, come la colazione nel bar di Svetlana, luccicante e pieno di libri  - non è il suo nome vero, ma le è rimasto appiccicato addosso - e il suo "ciao ragazzi", che ci fa sorridere uscendo. 
Le cose che cambiano sono questo ufficio, dalle cui finestre non vedo né rose né la sera venirmi incontro attraversando il giardino del mio studio. Miss Settembre, dalle pagine calendario patinato della Wurth, col suo sguardo felino si propone come valida alternativa, ma non è cosa, non ha il profumo della luna di sera. Vaglielo tu a spiegare.
Le cose che cambiano è il muro a fianco del quale era parcheggiata la mia moto e che mi sembra sempre così inaspettatamente spoglio e scrostato.
Le cose che cambiano sono la paura, molto spesso, di non essere capace. 
Le cose che cambiano sono la scoperta invece di essere ancora in grado di arrampicare quasi decentemente.
Le cose che cambiano hanno dalla loro quel bastardo presuntuoso ed arrogante che è il tempo, che soffia senza sosta appannando le immagini, strappando minuscoli frammenti di quello che sei e che non riuscirai ad essere ancora - felice? - allontanando le foglie e le parole, i profumi ed i sogni, la nebbia di latte del mattino presto ed il rosso del tramonto che incendia le mie montagne, accantonandoli alla rinfusa a formare cumuli di ricordi, ognuno di loro troppo bello per essere coperto dagli altri. E tu che della quiete non sai comunque cosa fartene - troppo stupido forse - ti rendi conto che saperli tuoi di un tempo che non ti appartiene non serve allo scopo, anzi. 
Le cose che cambiano accompagnano i tuoi desideri, tutti senza distinzione, quelli morbidi e tenui e quelli più spinosi e vividi. Li smussano, li levigano pazientemente, senza fretta, così che possano scivolare sott'acqua senza fare neanche più quasi rumore.
Le cose che cambiano fan piacere a volte, altre no. Ma comunque sia non è che tu ci possa fare più di tanto.

martedì 23 luglio 2013

The Royal Baby

"It's a Son". Con queste esatte parole, ma pronunciate nella nostra lingua - Ni 'kiume - hanno annunciato il lieto l'evento al mondo intero.
Un parto complicato ho sentito dire, non ne volevo proprio sapere di abbandonare il mio piccolo mondo, mia mamma Nadira ha dovuto impegnarsi un bel po' mentre fuori, incuranti del sole impietoso e della polvere, un pastore oziava tra le sue capre e quattro ragazzini si affannavano dietro ad un pallone fatto di stracci, che tutto sommato rotola abbastanza bene.
Nella capanna, oltre a lei, c'erano due donne del villaggio, le mkunga, pronte ad aiutarla e sostenerla, ma ha fatto praticamente tutto da sola. E dopo un po' si è alzata per andare al fiume a prendere l'acqua come fa ogni giorno. Io ero già sulle sulle spalle, avvolto bello stretto.

Sono venuto al mondo ieri. Nel mio villaggio che è un puntino sul vostro Google Earth, sperduto tra il deserto e gli oceani, mi aspettavano con ansia, la mia è una famiglia molto importante. Azibo, mio nonno, il capo del villaggio, ha fatto cucinare il gari e plantaine fritte per festeggiare.
Non vi dico l'entusiasmo, la festa, la felicità di tutti quanti, sembravano diventati matti. Pare che la notizia si sia propagata addirittura fino ai villaggi intorno. Per un attimo mi sono sentito il centro dell'universo, un principe nascente, addirittura quasi un futuro re. 
Perché, sapete, quando nasce un piccolo qui è sempre una specie di festa, né più né meno di quanto accade nelle altre parti del mondo. Anche se da noi c'è una piccola complicazione, ma roba di poco conto, nulla per cui valga la pena che vi preoccupiate. Perché da queste parti del mondo, ogni anno, pare che due virgola sei milioni di noi non ce la faccia. E due virgola sei milioni di bambini che muoiono, se ci pensi, è un numero spropositato gigantesco ed incredibile se li metti tutti in fila e cominci a contarli, è come se una città come la vostra Roma la riempissi fitta fitta solo di bambini con i loro vagiti e gli urletti ed i sonagli d'osso agitati piano e poi "puff!!"li facessi scomparire tutti, in un gigantesco gioco di prestigio un po' macabro. 

Ma oggi è un giorno che non ci devi pensare a queste cose, che devi festeggiare e stare felice, e poi hanno detto alla radio del nonno che anche a tanti chilometri di distanza da qui festeggiano che sembrano matti un altro bambino uguale a me, nato proprio nel minuto preciso spaccato in cui sono nato io. Ma che lui a differenza di me, vivrà sì in una capanna un poco più grande della mia, ma in un villaggio umido, freddo e triste poverino, dove la nebbia è padrona ed impedisce agli occhi dei bambini di godere del sole caldo e grande come quello che abbiamo noi qui.

E allora già mi sento un po' più fortunato.

Ah, forse non lo sapete, ma il latte è proprio la cosa più buona del mondo. 

Fonte: QUI
e QUI

giovedì 18 luglio 2013

Altrove



Arturo ha la faccia da bravo ragazzo, alto, lungo ed un piede rotto. Anche per lui è la sua prima moto. Mi ricorda un pò me alla sua età. Non appena sollevo il telone mormora piano "è bellissima", nonostante sia coperta da due dita di polvere e poi non riesce a levarle più gli occhi di dosso. Anche il suo amico, quello più esperto, la prova, la studia, la esamina attentamente, e poi dà il suo assenso. "La moto è a posto" gli dice, e Arturo sorride - E' quello che cercavo - mi fa.
Lo so - rispondo io, guardandolo fisso negli occhi.

Altrove, una vita di anni fa, quando il mio mondo aveva orizzonti diversi e meno domande a cui non so più dare risposte, eravamo di ritorno dall'ultima ecografia. La venuta al mondo di quella che sarebbe diventata la mia Ciccia bellissima era ormai prossima. Con la consorte si parlava distrattamente di un conoscente che aveva appena cambiato la moto. Lei ad un certo punto mi guarda e sorridendo mi dice: "Stai per diventare un padre di famiglia. Ti rendi conto che se non l'hai comperata fino ad ora, non la prenderai più".
Mi ricordo benissimo il semaforo diventare rosso ed a destra le due vetrine del negozio.
Lei era lì, esattamente dove doveva essere, luccicante e splendida. Mi aspettava, sembrava che avesse scritto su "la tua ultima occasione" a caratteri lampeggianti.
Parcheggio, lascio la consorte perplessa in auto ed entro. Ne esco dopo nemmeno cinque minuti e le chiedo di venirla a vedere dicendole: "Avevi ragione. Se non la compravo adesso non la compravo più".

Capita, nella logica delle cose che di logico non hanno mai niente che tu ti debba adattare. Che, per sopravvivenza o necessità od ambedue le cose, debba farti giunco e lasciarti scivolare addosso impassibile le folate del vento di tempesta, senza domandarti il come ed il perché, senza nemmeno aspettare che tutto finisca, perché sai che, prima o poi, anche l'ultimo scroscio rumoroso si allontanerà, lasciando dietro di sé un'aria che sa di pulito ed un cielo azzurro chiaro che ti permetta di guardare lontano ancora una volta.

E' stata il mio regalo per me per aver fatto la mia Ciccia così bella. E' stata la mia prima ed unica moto. Sono state le mie strade senza domande, quelle che arrivi in studio ed il sorriso non te lo spengono nemmeno le litigate coi soci, le mie curve piegate fino ad accarezzare la strada, gli incontri con le persone più speciali, il sole che tramonta al di là della visiera, e gioca riflettendosi sui mille giri dorati dei raggi in ottone. E' la pressione sulla schiena della mia Ciccia attaccata stretta che irradia il suo volermi bene così vasto, che quando accelero piano la sento felice ed impaurita, cuore di passerotto, lei ed il suo casco del sole e della luna di Valentino Rossi che non riesce a contenere tutto il suo sorriso.
Sono state anche un paio di cadute, ma non c'è motociclista che non si possa definir tale senza aver assaggiato almeno una volta l'asfalto.

"Se potessi ​parlare chiederei ancora una volta il permesso di lasciarmi libere le parole e le mani e con quelle spiegherei le vele del tempo che altrove ha avuto il suo senso di essere, intessuto del trascorrere dei secondi e delle nuvole che sfumano, del tempo che mi manca quando quell'inflessione conosciuta mi fa immaginare con chirurgica precisione la piega esatta del tuo sorriso".​

Hai ragione come sempre, sono solo cose. E per un verso è così. Per il verso razionale e freddo che so di poter dominare è così, godo di quello che ho avuto. Ma è una faccia sola della medaglia. L'altra reclama urla e strepiti ed incazzature e lacrime, come sempre accade con le cose più grandi di me, con le decisioni improrogabili, con questo cazzo di mondo che va da schifo e che mi strappa le quattro cose che mi sono conquistato per amore per forza o molto più semplicemente per una fottuta fortuna e che sono diventate parte di me, la pelle delle mie dita, gli occhi, il respiro freddo di una corsa all'alba.
Ma lei è la mia moto con tutta se stessa, con i suoi colori che non ho mai capito quali fossero ma che a me piaceva esattamente così, è il borbottio che conosco, i due scarichi cromati, è la freccia che ogni tanto dimentico, è l'adesivo che mia figlia ha messo sul tappo del serbatoio, è quella sensazione che hai non appena sali e che sembra ti trasformi. Sono i gesti che diventano abitudine, i guanti buttati nel parabrezza, lo starter e poi via.

"Se potessi dare spazio alla pelle del dorso della mano questa mi porterebbe altrove, ad attendere di poter sfiorare un dorso di un'altra mano una volta almeno, così quasi per caso, un pendolo distratto del braccio mentre osservi i nostri riflessi percorrere con passi veloci le vetrine dei negozi."

Perché sai, a volte basta quel minimo di alcool che si muove sinuoso nelle vene, mischia i pensieri che pensavi volessero uscire e te li mette in disparte proponendone altri, confonde le frasi e i ragionamenti, solleva silenziosamente il coperchio del serbatoio dei ricordi e le esigenze e tutto ciò che hai cercato di affondare con il tacco a schiacciare sottoterra affiora e velocemente si sposta dal torbido verso l'acqua limpida, uscendo dai gorghi della normalità che ricopre i ricordi ed il tempo. E torna alla bocca dello stomaco la fame di quello che ho così inaspettatamente avuto, di quello che non c'erano parole adatte per comprenderlo, di quello che stupidamente, ogni tanto manca così forte da lasciarti consumato all'angolo.

Se invece potessi dare ascolto alla memoria degli occhi ritornerei altrove, solo a percepire il profumo del sole che filtrava attraverso quella persiana abbassata ed a indovinare lacrime che mi appartenevano e una felicità così spaventosa da non avere parole. 

E' solo una stupida moto. Vecchia per giunta, un ammasso di molle, pistoni, qualche pezzo di plastica e un po' di ingranaggi unti. Ma sono quei momenti, quella parte del mio tempo in cui ho la certezza di aver vissuto che si stacca come la pelle di un serpente e se ne va, è un'altra maledetta parte di me che si allontana per percorrere strade che non mi apparterranno.  
Oggi ho poche parole per parlare, ma nuove pareti di amianto che mi circondano, che mi proteggono dal fuoco, mi rendono insensibile al calore e che mi lasciano un sorriso lento in fondo agli occhi, che non vuol significare proprio niente.

Sì. Sono proprio queste pareti nuove che mi fanno sorridere ad Arturo mentre gli stringo la mano e lo accompagno fuori, lui e la sua nuova moto.

Ma vorrei, Dio lo sa se lo vorrei, essere semplicemente altrove. 

sabato 29 giugno 2013

Hidden identity



In ogni comics che si rispetti, l’identità del supereroe viene sempre misteriosamente tenuta celata agli occhi del mondo intero.

Lo puoi incontrare nella penombra della notte, i tratti del volto occultati dalla maschera solcati dai freddi riflessi della luna, mentre sorveglia la città dalle pendici di un grattacielo, incurante di tutto, in equilibro su un traliccio per le telecomunicazioni. I suoi occhi scuri contengono tutti i suoi segreti.

Analogamente, l’identità del prode D&R è ugualmente incognita agli occhi dei più, con poche e fidatissime eccezioni. Sì è vero, come analogia magari sarà pure stiracchiata, non sono solito passeggiare affacciato perigliosamente sul baratro (ed è una vita che non arrampico), anzi ultimamente dimoro in un cubicolo al secondo piano interrato di un ospedale senza optional alcuni al di fuori dell’aria che respiro. E’ vero che sorveglio grovigli di apparecchiature elettriche sull'orlo di una crisi di nervi (loro e mia) tentando inutilmente di mantenerne il dominio, e non ho nè mantello né mascherina - che tralaltro mi starebbero un amore, ça va sans dire - anche se ho la certezza che se iniziassi a trotterellare allegramente per i reparti di qui con tutina, mantello ed una grossa D&R cucita sul petto mi meriterei immediatamente un soggiorno nel reparto di sanità mentale a spese dei contribuenti. Ma che volete, quando uno sente di avere in sé lo stesso spirito dell’omino della pubblicità che fredda il mostro con l’alito ghiacciato del Vigorsol, mica può reprimerlo e rassegnarsi a fare solamente l’ingegnere serio e compito, che diamine.

Dicevo che il segreto della mia doppia identità è ben al sicuro entro poche mani. Ed ogni coppia di quelle mani appartiene a persone, ciascuna preziosa e merce rarissima, che si sono meritate nel tempo la mia fiducia più assoluta: ognuna di queste ha un pezzetto della mia vita stampato in loro, e ognuna è parte del percorso della mia, una via, una strada, una piazza, angoli, fiumi, alberi e nuvole di una mappa colorata ancora da finire di disegnare.

L'incontro con queste persone ha cambiato il mio percorso. Hanno camminato con i miei passi, hanno accresciuto il mio modo di essere, mi hanno donato bellezza, parole e sorrisi, lacrime e carezze, uno spicchio di luna e un cristallo, una mano da stringere che sarà sempre un'ancora a cui tenersi saldi, un battito impazzito nel cuore che non ascolta la ragione ed un profumo raccontato dal vento. Ognuna di loro, a loro modo diverse e speciali, ha reso me migliore del me stesso che ero prima di incontrarle.

Perché in questo sparuto gruppo compaia poi anche lei, in realtà non l’ho ancora del tutto capito. Ma c'è, ed è un fatto.
Lei che dello studio ha rotto la qualunque, anche solo con il potere dello sguardo: computer, telefoni, server e macchine del caffè, scaffali e oltre a (ovviamente e molto più spesso) un paio di cose alquanto personali del sottoscritto, si sono dovuti arrendere alla sua furia devastatrice. Il tecnico della nostra rete, a causa sua, ha dovuto ricorrere più volte in analisi.
Lei che di parole me ne ha date tante, a volte così tante da travolgermi e sommergermi improvvisamente stile slavina, senza neppure curarsi prima che nei dintorni ci fosse un san Bernardo con la fiaschetta di grappa per poterne uscire vivo.
Lei è l’architetto di cui ho già parlato qui. Che ha fatto una scelta necessaria e non indolore e che dalla prossima settimana (e per questo ha già da oggi tutta la mia solidarietà) inizierà un altro capitolo della sua vita lavorando in quel di Bucodiculoplace, lontana dallo studio delle rose, da tutto quello che è essere meravigliosamente noi, i nostri progetti e le nostre banche, il cameratismo con le battutacce da caserma alla macchina del caffè, le corse, le litigate e gli sfoghi ritornando a casa la sera. Lei che le basta annusare una qualsiasi bevanda alcoolica per inanellare una serie di doppi sensi da far arrossire un camionista di Reggio Calabria, lei che ha reso più leggeri giorni troppo pesanti, che mi ha assistito nella correzione degli spaventosi errori grammaticali del suo capo nonché mio socio (a sua insaputa), lei che ha ascoltato seria le storie più inconfessabili quando le dicevo “fai finta di essere Enry”.
Andrà a lavorare là, nel lugubre loco improponibile, con quattro panchine sbilenche a farle compagnia - fatte apposta per far cadere sul fianco i pensionati che proveranno a sedersi - al di là dei vetri dell’ufficio di due metri quadri e mezzo senza Internet né radio con Santina e tutte le sue stronzate inascoltabili, a osservare trascorrere il nulla interrotto dal rotolare pigro di qualche secca sterpaglia sul selciato. Per tenerle compagnia sto pensando di regalarle un pallone da pallavolo, un Wilson con cui scambiar quattro chiacchiere come in Cast Away.

Ma ha scelto bene, non poteva essere diverso. Gli occhi dei figli cambiano troppo in fretta se non sei lì a respirarli, ad accompagnarli all’asilo per mano e mettergli le scarpine, quelle rosse piccole, dargli il bacino sulla punta del naso prima di vederli allontanarsi a cominciare sereni la loro giornata. Cambiano, se non riesci a regalargli quella parte di te stessa che gli spetta, a godere di una vita basata su singoli momenti unici, se un posto lontano te li assorbe e ti lascia esausta, se il tempo che passi guidando supera ogni giorno, quello che passi con chi è la cosa più importante della tua vita.

Così lei ha scelto. E ha scelto bene.
Ha colto una rosa sapendo che ci sarà qualche spina che la pungerà un poco comunque, ma almeno ne respirerà a pieni polmoni il profumo intenso.

E quindi è lei, il vero supereroe di questa storia.

Passerà un'ultima volta sotto il pino, sorridendo, guarderà le rose che sbocciano, la pianta di limoni, i gradini scrostati, le ortensie, l'erba appena tagliata, i muri di questo posto che è diventato una strada nella sua mappa colorata. Poi chiuderà il portone, osserverà il nostro bar e non riuscirà a non girarsi indietro.
Lei ed il suo entusiasmo nelle cose, lei e la sua allegria, lei e il suo tempo che ha fatto passare più velocemente il mio.
Lei che anche adesso, mentre sta finendo di leggere, sono sicuro che, piagnona com'è, ha gli occhi lucidi ed un sorriso nuovo, sulle labbra e sul cuore.

E per l’ultima volta, razza di rompiballe come pochi altri, fai finta di essere Enry, che devo abbracciarti e dirti grazie.

Ah, tanto per la cronaca. [aggiornamento del 29 luglio]
Tanto lo sapevo che, aprendo la "busta", almeno gli occhi lucidi, quelli ti venivano.


giovedì 20 giugno 2013

Lo senti?

Piove.

Piove lento e silenzioso, così calmo e rassicurante in questa sera inaspettatamente fresca. Piove di quel suono ovattato, quello ssccc continuo che è la pioggia d'estate, che va sopra ogni cosa e copre il rumore delle rade auto che passano, che anche loro si portano addosso rumore di pioggia.
Piove sulle foglie larghe della vite coi suoi timidi grappoli ed i riccioli sottili con cui si arrampica flessuosa e tenace sui muri, sul pino maestoso che allarga le sue braccia ad accoglie i due merli, gli stessi che ogni tanto si affacciano a curiosare impettiti fin sulla porta per capire cosa stia combinando qui dentro.

Il cielo è una lastra d'acciaio, un temporale lontano brontola cupo. 
Mentre qui piove sul selciato lasciando quell'odore di sabbia bagnata, di pietra tiepida e di attesa.
E piove sulle mie poche parole sempre più difficili da trovarmi addosso, sulla mia Ciccia lontana, sui miei pensieri così disordinati, su questa voglia di niente che ogni tanto mi attanaglia e mi morde, su questo fardello di pensieri e di cose che a volte sembra di non aver niente su ed altre invece è così pesante da portarsi addosso.

Piove sulla luce di fuori, gialla e radente, piove rendendo le mie rose appesantite e più profumate ancora, trasformando le foglie in diademi luccicanti e preziosi, piove sui miei pochi sorrisi e sui miei tanti progetti, sulle parole che mi mancano, sullo zaino per correre e su tutti i miei sogni sognati, che alle volte mi appaiono così distanti e bellissimi che penso di non esserne capace, di sognare sogni così.

venerdì 31 maggio 2013

Ehi voi

Che a quest'ora sicuramente ancora poltrite nei vostri comodi letti. 
Qui si corre. 
Sappiàtelo.

sabato 18 maggio 2013

Sorge dal mare

Il sole sorge dal mare, in questo mare che di giorno è un'immane distesa colore del fango.
Strano per me, questo brillare di luce tagliente che invade prepotente la mia camera d'albergo, la mattina presto. Strano per me, che il mio sguardo non ha abitudine a spaziare così in questa maniera, io che ho un mare diverso stampato nel fondo degli occhi e di quel mare ho preso forse il suo stesso animo, un animo che calmo non riesce a stare più di tanto. Questo mare liscio di qui non respira fremente di forza sotto la pelle delle onde, non ha ansie ed anse e scogliere ruvide al tatto a nasconderne la vista, non ha quel sapore tra i denti e quel colore blu profondo ed il rumore incessante di sassi che si rincorrono nella risacca, onda dietro onda. 
Strana per me questa lama fredda e luccicante, che nel mio mare invece il sole ci si immerge dentro la sera, caldo sulla pelle delle braccia, mentre il cielo esplode di rosso e si allaga di riflessi profondi.
E strano è stato anche questo viaggio, che non so, ma nella logica delle cose è candidato per essere forse l'ultimo per la mia auto, che ogni volta che dico quanti chilometri abbiamo percorso insieme tutti strabuzzano sempre gli occhi, e per la prima volta nella sua vita ha fatto un viaggio rispettando giocoforza - e di molto anche - ogni limite di velocità. Una due giorni intensa di aggiornamento tecnico, insieme a tanti che fanno più o meno il mio stesso mestiere. Ed una cena di gala a cui non ho volutamente partecipato, perché, per una volta, avevo di meglio da fare, per me stesso e basta, il mondo ogni tanto si fotta pure. Ritrovarmi nelle mie scarpe e nei miei passi veloci, su di una strada di pensieri tutta da inventare, con le mie note di sempre nelle orecchie, annusando sogni che proprio non mi riesce di smettere di sognare. Ed è stato facile rincontrare i gesti delle mie dita che fanno il doppio nodo alle stringhe,  i primi passi e poi via, il resto è un marciapiede che si srotola troppo piano, sprazzi di luce dei lampioni che ti vengono incontro e si perdono indistinti alle spalle, le poche coppie che si spostano per lasciarti passare, un cane che sembra indeciso se annusarti al passaggio o tentare l'addentata al volo del polpaccio, il buio nero della distesa liquida dietro alle cabine scrostate che si contrappone alla fila disordinata degli hotel scintillanti di luci, dalla parte opposta della strada.
Sono qui. Sono qui ancora.

E poi, se ci pensi bene, non è così strano trovarmi di nuovo su questa passeggiata, alle sei del mattino del giorno successivo. Allacciarmi con cura le scarpe, indossare il cappellino del CUS che mi ha dato la mia Ciccia (gliene avevano regalati due e lei mi ha gentilmente concesso quello che mi piaceva di più), far partire il conto alla rovescia di Endomondo fino al fatidico "libera le endorfine" ed ecco che i primi passi elastici di corsa sono già alle spalle, ritrovando un'abitudine, forse, nonostante le grane e ogni fiato amaro di questi ultimi tempi.
Sono qui, sono qui ancora. E sono io.
Io con i miei occhiali scuri ed i capelli che ondeggiano ad ogni passo. Io ed il fiato dei polmoni che esce regolare. Io e le mie scarpe che hanno buchi nuovi, ma di cambiarle non è di sicuro arrivato ancora il momento, io e questa strada con le panchine che sembrano barche, e quest'alba che s'intensifica lieve, il traffico rado, le poche persone che puliscono la spiaggia, le piattaforme in equilibrio sul filo dell'orizzonte e queste onde che accarezzano la spiaggia. Io ed i miei sogni e le mie contraddizioni, che con gli ultimi non ho ancora imparato a conviverci ed i primi ho imparato a sognarli troppo tempo fa, ma no, mi rendo conto che non ho ancora smesso, se bastano quattro passi veloci e me li ritrovo tutti quanti qui, a spingermi in avanti.
I chilometri mi vengono incontro con troppa lentezza e passano oltre, incontro pochi runner che mi fanno vergognare del mio avanzare ma va già bene che non sia finito sotto una tenda ad ossigeno, le gambe si fanno sentire imprecando.

Poche impronte, su questa lingua di sabbia dura e conchiglie, se la mia Ciccia fosse qui con me a quest'ora  invece di correre saremmo tutti e due inginocchiati per terra a cercare la più grande e più bella, quella con i riflessi di madreperla, ridendo dei paguri che tentano di sottecchi sfuggire alla cattura riguadagnando la sicurezza delle onde. Lei, che sotto un cielo lontano a quest'ora sicuramente ancora dorme, lei che mentre penso ai suoi sogni  mi alleggerisce i passi, lei che mi dona sempre la forza di un sorriso. Il passo è un martello incessante, nonostante la fatica che aumenta la voglia non si esaurisce, era troppo tempo che non mi trovavo da solo con me ed avevo troppe cose da dirmi, troppe cose da ascoltare, troppi nodi da sciogliere, troppa musica da farmi fluire nelle gambe e nelle braccia, troppi sguardi da portare lontano, troppo vento da sentirmi addosso, troppi errori da ammettere, troppe domande ancora a cui devo saper dare delle risposte. E la strada ti dà ragione, ti asseconda e ti dice vai che ne ho quanta ne vuoi, passa nei muscoli delle gambe e nelle orme che lasci, in qualche strana maniera assorbe la rabbia, i pensieri sbagliati, quelli contorti e disperati, strappa i rovi spinosi e le erbacce liberando solo quelli puliti e limpidi, quelli per cui valga la pena di.

Un'ora dopo sono nuovamente ai piedi della fontana grande, quella con le reti da pesca. Il mio hotel è di proprio di fronte. Entro mentre la città inizia piano a svegliarsi con profumi fragranti di pane e caffè. L'addetto alla reception mi squadra di sottecchi, ma non me ne curo.
Il primo sorriso della giornata è tutto mio. E della mia Ciccia, che al telefono sveglio perché si prepari per andare a scuola.

Oggi non ho un muscolo che non mi faccia male. Ma va bene così.


mercoledì 8 maggio 2013

Dicono di me

che sbaglio. Che molto probabilmente ho bisogno di una sana vera vacanza - e probabilmente è vero, Dio solo sa da quanto tempo non mi fermo a respirare con fiati composti da respiri lunghi, misurando il tempo, ascoltando battiti regolari. Chissà da quand'è che non mi dico convinto andrà bene, che ogni pieno di gasolio non è un tracollo insanabile, che riesco a guardare questo posto qui e la sua gente senza avvertire un senso di angoscia che prende alla gola.
Dicono di me che prendo tutto troppo sul serio, che sono inflessibile e severo, sempre troppo al limite, che con me le cose o sono bianche o sono nere, e quando qualcuno non la pensa alla mia maniera per me è subito contro.
Intransigente. 
Certo è che ultimamente urlo parecchio. Urlo per un niente, urlo con le vene che, con una facilità disarmante mi si gonfiano sul collo, e con il tono di voce che va su in un lampo, senza quasi che possa far niente per evitarlo.
Urlo come forma di liberazione e ribellione ad ogni prevaricazione e stupidità anche se questo, ironia della sorte, mi fa sentire stupido, urlo perché non riesco a raddrizzare le cose, urlo perché magari non avrò altre valvole di sfogo, perché non ho costanza e tempo e forse neanche tutta questa voglia di rimettermi nuovamente a correre. Urlo perché mi sa che ho finito i sogni.

E me ne sono reso conto anche l'altro ieri di quanto sia diventato un perfetto idiota, là in quella piazza, con la mia voce amplificata dalle geometrie dei portici bassi che rimbalzava sulle pietre del selciato, tutti i miei  ringhiosi perDio tirati a denti stretti  e i passanti che guardavano di sottecchi la scena, sfilando via frettolosi. E mentre, tra me e me mi davo del discreto coglione, non riuscivo a comunque smettere, con ogni nuovo pensiero che era più furibondo del precedente, un mare oscuro in tempesta dove ogni ondata veniva subito sovrastata dalla successiva.  
E dire che, solamente due giorni prima,  in casa D&R era volato un piatto - coniglio alla ligure il suo contenuto. Uno scatto improvviso del polso da sotto in su e la stoviglia era decollata con eleganza dalla tovaglia roteando sul suo asse, descrivendo un'ardita parabola e rilasciando bocconcini di coniglio, olive e schizzi di sugo, piccoli gustosi missili che erano stati sparati tutto intorno. La gatta si era leccata i baffi.
Mia figlia invece si era messa subito a piangere. Mi sono ricomposto, ma che volete, il danno oramai era fatto. 
La sera, nel suo letto, mani nelle mani ed occhi negli occhi le avevo poi chiesto scusa, cercando di minimizzare, provando a scherzarci persino su e le avevo anche domandato perché mai si fosse messa a piangere. Lei mi aveva risposto che aveva avuto paura di me. 
Paura di me. 
Le ho chiesto se ricordasse che le avessi mai dato una sberla. Mi ha risposto che no, lo sapeva bene, nemmeno quella volta che aprendo di colpo la portiera della mia auto l'aveva mandata a sbattere contro la fiancata della macchina della consorte - tutte e due fresche di carrozziere - l'avevo mai toccata ("però anche quella volta lì mi avevi fatto paura, ma eri arrabbiato diverso"). Ma, guardandomi negli occhi che non sorridevano mi ha detto che quando sono così, quando ho gli occhi cattivi  non riesce a non avere paura di me.
Le ho promesso di cercare di lasciar correre. Le ho promesso di cercare di essere il suo solito papone che scherza e che ride e che se la porta sulle spalle la mattina quando la sveglia anche se è lunga quasi quanto me. Le ho promesso di raccontarle ancora storie la sera, e ci siamo detti che è proprio da tanto che non facciamo una bella conta dei peluches, di quelle che poi ci nascondiamo il gatto dentro. 
Sarò buono, promesso.

E son durato due giorni, proprio un bel record.
E dopo, quando tutto si era acquietato, quando ti senti improvvisamente così stanco da preferire il silenzio e  tenere gli occhi chiusi su tutto, era perfettamente inutile domandarle ancora una volta scusa. Ovviamente non era con lei che  ce l'avevo, ma lei era lì, insieme ad altri, in un'occasione di pseudo festa familiare. Chiunque dotato di un minimo di buonsenso avrebbe preferito lasciar correre.
Non aveva senso scusarsi, le ho parlato. Le ho detto con la voce bassa e disperata che non so. Che non so perché mi debba arrabbiare così, non so se non riesco a vedere chiaramente o meno le cose, non so più nemmeno distinguere se abbia ragione o torto e probabilmente sbaglio, sbaglio su tutto, sbaglio a vedere, sbaglio a capire, sbaglio ad urlare. 
La sua risposta mi ha lasciato senza forze. 
"Non so se sbagli papà - mi ha detto, con la sua voce più morbida - forse no, magari avevi ragione. Però dopo che hai urlato in quel modo mi sono sentita solo molto triste".

La Ciccia, tredici anni di meraviglioso donnino, non se lo merita proprio, uno così, che le fa paura e che la renda triste.
Non posso farle promesse che non so se riuscirò a mantenere. Non so quanta capacità io abbia, oggi di scuotermi di dosso il peso delle cose come si fa con la polvere di una strada terrosa dall'orlo dei jeans. Non ho occhi sereni, non ho orizzonti lontani. 

Non le ho detto "cambierò, promesso". Le ho detto che ci proverò. Che proverò ad ascoltare il suono del suo cuore, ad imprimermi bene in mente la morbidezza della sua mano quando stringe la mia, proverò a ricordarmi il colore dei suoi occhi, di nocciole e settembre. Proverò a provare. A cercare una soluzione  diversa, ad inventarmi una storia dalle forme delle nuvole, ad indovinare un arcobaleno, perché pare che accada proprio così, anche dopo la peggiore tempesta, se presti attenzione là in fondo, dove le nuvole si stracciano, guarda bene, che è lì che ti aspetta. 


On air: C. Cremonini: Dicono di me


domenica 10 febbraio 2013

Io e Irina


Al parcheggio sotto Piazza San Carlo la mia auto so che ci va malvolentieri. Questo principalmente perché sa che, ogni volta che vado a pagare, non posso non pensare che il prezzo del ticket supera abbondantemente il suo valore attuale.
Ma mica può opporsi, se devo andare in centro quando è troppo rischioso usare la moto, il lastricato bagnato di pioggia è spesso infìdo. E non ditemi adesso voi che le auto non pensano, antichi. Le macchine che ci accompagnano, che ci ascoltano, che sentono le nostre emozioni, le risate, le parole e che le assorbono, in qualche misura ne rimangono contagiati. Comunque la mia macchina pensa. Ed ha anche un bel caratterino, tutto sommato.

Comunque stavo dicendo che la mia macchina va malvolentieri al parcheggio di piazza San carlo.
La capisco, si vergogna poverina, e come darle torto, oltretutto. 
Quel posto stride con la situazione amara che tutti stiamo vivendo. Nel sottosuolo di Torino si nasconde infatti un paese del Bengodi concentrato sulle quattro ruote, un tripudio di macchinoni di ogni foggia, misura e colore, scintillanti e lussuose meraviglie della tecnologia meccanica ed elettronica quasi prettamente teutonica. Qualche supercar nostrana ogni tanto, sempre rigorosamente parcheggiate in prima fila, in quei posti che ti vien da chiederti come cazzo facciano, se mandino il maggiordomo filippino di casa a sdraiarsi lì alle sei per fargli trovare il posto da invidia o se paghino il cassiere per avere la pole position riservata. Sta di fatto che lì, la prima fila di quelle linde vetture messe bellamente insieme non riesce a coprire, in km percorsi, quanto si è sorbita la mia auto da sola. Da sola con me, intendo. 
E sembra farlo apposta, ma trovo sempre libero solo quel parcheggio in fondo, quello vicino al pilastro che entrarci è un casino e per uscire mi tocca tirarmi fuori dal finestrino, quello con sopra la luce al neon con lo starter in punto di morte che fa tanto quell'effetto strobo dei film dell'orrore.

Parcheggiando in un posto centrale, quell'unica volta che mi era capitato di trovarne uno libero, avevo notato, tornando indietro a recuperare la borsa dimenticata nel baule, l'espressione schifata dell'impeccabile proprietario di un'altrettanto impeccabile Maserati a fianco, rivolta alla mia vettura. Aveva camminato lungo lo spazio che le separava con fare schizzinoso, tenendosi strette le pieghe del cappotto, controllando che ci fosse una distanza di rispetto di mezzo metro almeno tra la sua meraviglia lustra e la mia tenuta insieme dallo sporco. Poi, non contento, era risalito in macchina e l'aveva spostata più in là. Probabilmente aveva paura di restar contaminato. 

In quel parcheggio, nella scala davanti alle casse automatiche da qualche tempo incontro Irina.
Io la chiamo Irina perché è il primo nome che mi è venuto in mente, vedendo i suoi occhi chiari da ragazza dell'Est. 
Irina vive lì da un po'. 
Tu scendi le scale e vedi quell'ammasso informe sistemato in disparte per non dar fastidio a chi passa. Irina si chiude una coperta addosso, si accuccia e si allontana dal mondo, appoggiata al montascale per i portatori di handicap. 
Non disturba, non fa l'accattona, non lì almeno, mi sono fatto l'idea che che quasi non si osi. Non dà fastidio elemosinando il resto dalla cassa automatica. 
Le ho parlato una volta sola una mattina, quando mi ha chiesto, con gentilezza, se con il biglietto del parcheggio potevo sbloccarle l'accesso ai bagni. Non ci son riuscito purtroppo, non ha funzionato. Mi ha ringraziato comunque, prima di tornare al suo posto.
Ho osservato velocemente il volto di una ragazza inaspettatamente giovane, con lo sguardo sereno, attento e pulito che mi ha fatto rimbalzare in testa la parola dignità, e che mi ha fatto venir voglia di chiederle ma come hai fatto ad arrivare così, chi sei, da dove vieni, dove sono un padre e una madre che non è possibile che non si interroghino per te, che cosa c'è nella tua storia, quanti sono gli sbagli che ti han portato a camminare così tanto e ad aver come meta gli ultimi gradini della scala del parcheggio di piazza San Carlo a dormire con solo il calore di una coperta addosso. Non mi son osato, non ero da solo e comunque non ne avrei avuto il coraggio comunque, e le mie domande me le sono portate con me, nei miei pensieri, nei miei film a occhi aperti che mi faccio spesso (ho firmato regie bellissime) ed in quei quattro passi che mi separavano dalla mia macchina mi sono ritrovato catapultato in una storia con me che partivo e cambiavo mille treni e stringevo mille mani per impedire la stessa sorte alla mia Ciccia diventata grande, smarrita in una città straniera. La stavo abbracciando disperatamente nella metropolitana di Lisbona quando son ritornato alla realtà, stringendo convulsamente il bordo del cruscotto. 
Complice il breve sogno agli occhi aperti, quelle che sono le mie attuali difficoltà hanno assunto una dimensione diversa. Ed anche il valore di molte cose è inaspettatamente cambiato. 
Perché io che mi lamento e dopo nemmeno dieci minuti sono comunque a prendere un caffè in uno dei bar più lussuosi della mia città mi ha fatto sentire un po' ipocrita, se vai a pensare che c'è chi, con quella manciata di spiccioli, ci campa. 
Non so le motivazioni, non so perché il viaggio di Irina sia al momento sospeso su quei quattro gradini. Non so niente di niente e non so nemmeno se si chiami Irina, ma non è quello il senso. Il senso è quello che mi ha fatto mettere in pratica un piccolo cambiamento, per tutte le volte che passo di lì. 

E con la scusa della fretta e delle tante cose da fare in studio saluto prima e rinuncio al caffè, peraltro ottimo, che mi toccherebbe comunque pagare. Esco da quegli edifici aristocratici che sanno di lusso stantio, infilo rapidamente le scale, vado a pagare il parcheggio e faccio finta di dimenticarmi il resto nella cassa automatica. 
Lo so che Irina osserva, sento lo sguardo dietro di me o forse è solo suggestione. Sento però che, subito dopo, va a recuperare piano gli spiccioli. Non mi dice niente e non le domando niente. E quella volta che invece aveva la coperta addosso che la separava dal mondo le ho fatto scivolare come per caso una banconota piccola, tra la coperta ed il muro, in modo che la potesse ritrovare tra le mani appena sveglia. 

Magari non serve a niente. Magari, come sento dire da tanti, quella ragazza in un giorno riesce a racimolare quanto io non riesco a prendere in un mese, magari la prossima volta che dovrò andar là Irina sarà sparita per sempre.
Ma mi fa piacere pensare, nei miei sogni ad occhi aperti, di essere io, a mia volta, un piccolo fotogramma del film di un altro padre che, sotto cieli lontani, sta sognando di raggiungere sua figlia. 

sabato 12 gennaio 2013

Ore 21, poesia


Da qualche mese la mia presenza in studio ha subito una drastica riduzione d'orario. Complice infatti l'austerity unita alla pesante sfiga di avere una collaboratrice che abiti proprio in quel di Bucodiculoplace, per tentar di risparmiar una manciata di euri e prolungar la vita delle rispettive quanto iperrodatissime vetture ci siamo accordati e prendiamo la macchina a turno, una settimana lei, una io.

E' stata una lunga e difficile trattativa all'inizio, per raggiungere un punto d'intesa: siamo partiti da posizioni molto distanti, anche se avevamo comunque ben presenti ognuno le esigenze dell'altro: io infatti so che lei ha due pargoli (ed un marito) i quali la sera son lì in attesa, con la bocca spalancata tali quali gli uccellini nei nidi e che pertanto dovrebbe godere di un orario lavorativo se non umano quantomeno standard, mentre lei sa che io abitualmente comincio presto, finisco tardi e di solito (mi ricordo la signora Luisa della pubblicità di un tempo) pulisco anche il water. Questo avendo, tra gli incarichi professionali aggiunti in calce nel contratto pure quello dell'office cleaning. 
E il fatto che la pago è un altro particolare che nella trattativa ha avuto comunque tutto il suo peso, non conta quanto la pago (cioè poco), ma la pago, cioè.

Ci siamo trovati a metà strada. Cioè partiamo presto (così da evitare il traffico dell'ingresso in città ed arrivare al lavoro già stressati) e per lo stesso motivo torniamo subito dopo la fiumana di vetture in uscita dalla città, giusto in tempo per far sì che lei riesca a trasformarsi, con abile guizzo, da affermato architetto in prestito a una torma di squallidi ingegneri ad efficiente massaia e madre premurosa, immediatamente dedita a: sfamare la famiglia, lavare, stirare, sparecchiare, mettere a letto i figli, "accudire" il marito e andare infine a dormire, svegliarsi, docciarsi e vestirsi, pronta a ripresentarsi per un'altra giornata di lavoro la mattina successiva, fresca come una rosa. Ed in qualche misura ci riesce davvero, giuro. Mi aspetto comunque, un giorno o l'altro, di vederla uscire da casa in accappatoio e computer a tracolla, con un figlio che guarda dall'oblò della lavatrice con il programma "capi delicati".
So che sta ridendo, in questo momento. Ed un po' mi odia comunque, ma non tantissimo.

In definitiva abbandoniamo le nebbie di Bucodiculoplace alle 7, luogo oscuro a cui vi si fa ritorno intorno alle 19.30 (ok, ok, ci aggiungo il "circa", ma quando devi finire una simulazione illuminotecnica che ti tiene incollato al pc da due giorni (o eventualmente pure un post) non è che puoi stare lì a spaccare il minuto in quattro, no?)
In un primo momento ha osservato che precedentemente all'accordo bipartisan godeva quantomeno di un'ora di sonno in più, ma alla fine ha concesso il suo assenso. Penso di averla presa per stanchezza.

Guido sempre io, sia la la mia sia la sua vettura.
E lei si spaventa sempre uguale, sia con la mia con la sua. 
Nella settimana "sua" però apprende cose diverse, ad esempio: che la sua macchina può raggiungere velocità inimmaginabili, che nel curvone dove una volta ha fatto testacoda conviene entrarci in traverso pieno per controllare meglio la derapata e che l'uscita dalla tangenziale con la frenata dell'ultimo istante è una vera figata, anche se poi i dischi si ovalizzano.
Nella settimana "mia" scopre invece altre chicche, ad esempio che una macchina che ha al suo attivo una caterva di km e qualche problemino agli iniettori può passare d'improvviso dai duecento all'ora al singhiozzare a tre cilindri ma che ciò non è così grave come sembra, e che per ovviare all'inconveniente si deve spegnere e riaccendere la vettura in corsa: quest'ultima faccenda, al momento la turba ancora un po'.
Quello che invece sconcerta me è che, nostante le levatacce, le grane, il lavoro, la spesa, i figli e la fatica, in ambedue i viaggi, con qualsiasi veicolo, tempo o musica a palla di sottofondo, non la smette mai, nemmeno per un microsecondo di parlare. E' capace addirittura di lasciare una frase interrotta a metà la sera e riprenderla esattamente dal punto in cui l'aveva lasciata la mattina successiva. 
Quindi, ragionandoci su, non so bene a chi sia convenuto. Il mio analista infatti mi sta costando più del gasolio che risparmio.

Ma questa mia sintetica premessa era per farvi sapere che è oramai diventata quasi abitudine la mia uscita dallo studio in quell'orario che io definisco "presto". E quel presto sta a significare che arrivo quasi sempre per cenare al desco familiare ed affrontare subito dopo l'immane disavventura che vede impegnata la mia Ciccia contro i compiti. Roba che, al confronto, le peripezie di Fantozzi al lavoro sono noiose come un documentario sulla vita sociale dei cianobatteri. Voi obietterete che i compiti a quell'ora non si fanno, che una Ciccia che si rispetti dovrebbe andare a dormire presto. Ma la piccola ha le lezioni di atletica tre giorni alla settimana e poi non sapete voi, voi che non avete la fortuna di dimorare a Bucodiculoplace, che il paese medesimo, insulso in quasi tutti i rari momenti in cui ci sto pure io, in mia assenza invece si risveglia, si desta dal torpore, esce dalle nebbie che lo rivestono anche a ferragosto e rifiorisce e - come nel film della bella e la bestia - riprende una vita sociale intensissima, ci sono supermercati luccicanti da frequentare, bar al profumo di caffè ove oziare, innumerevole ed in continuo aumento parentame della consorte a cui far visita obbligata. Ci sono file di genitrici di compagne di scuola con cui confrontarsi, e pertanto non passa ogni sacrosanto giorno in cui io possa arrivare a casa e, anziché meritarmi come ogni umano un po' di sacrosanto riposo ed una poltrona su cui stravaccarmi, mi tocca attivare il cervello in modalità insegnante di sostegno e via, con rinnovato entusiasmo verso le incognite delle radici quadrate, via, verso le traduzioni di inglese più complesse - I am= io amo - via, verso i compiti di italiano, dove mia figlia riesce gradatamente a smorzare ogni energia, con lo sguardo fisso e quell'espressione vagamente beota che ricorda un abitante dell'isola di Pasqua al cospetto di un marziano appena sceso da una navicella. 

La osservo spesso e quello che leggo nei suoi occhi è il vuoto cosmico più assoluto e perfetto, provo perfino le stesse emozioni della particella di sodio nell'acqua Lete.

Esasperato, qualche volta ma sempre malvolentieri mi incazzo pure, alzo il tono della voce e lì ho scoperto che allora, con tale montessoriano metodo, miracolosamente una scintilla di vitalità negli occhi riappare, va via il torpore, l'apatia, quel piccolo cervellino riprende lentamente a macinare. Come dire, la devo tenere sempre sul pezzo, altrimenti la perdo. 

L'altro ieri però una piccola tragedia, inaspettata, si è consumata in casa D&R. 

Poco prima delle vacanze di Natale la Ciccia si era influenzata ed in sua assenza la professoressa di francese aveva assegnato il compito di imparare a memoria per l'anno nuovo la Galette des Rois, una poesiola scema incentrata su un dolce tipico dell'Epifania d'Oltralpe. Si tratta dell'equivalente della nostra focaccia della Befana e rappresenta la felicità dei dentisti locali in quanto al suo interno si trova una piccola statuetta di ceramica. Chi la trova perde sì due o tre molari, ma per un giorno intero viene riconosciuto re da tutti i commensali e può comandare zie, l'odiatissima cugina con l'apparecchio e persino il cane. Ma dimmi tu 'sti francesi. Arridatece la Gioconda e la Bellucci.

Tale giocoso nonché incantevole componimento in rima, le era stato detto al suo ritorno sui banchi, non era sul libro, ma lo si poteva recuperare tranquillamente in Internet. Detto fatto. Cerchiamo, troviamo. La cosa anomala però è che questi mangialumache che non sono altro pare abbiano scritto una caterva di componimenti sulla galette des Rois, una sfilza di opere di alto ingegno, come se non stessero aspettando altro, come se l'abbondanza di zuccheri nel sangue abbia ispirato il fior fiore dell'intellighenzia in rima, come se smaniassero dalla voglia di finire una frase per poter usare parfois, pois o niçois. 

Come dire a noi ce ne fa un baffo del vostro ermo colle o dell'illumino d'immenso, noi ci abbiamo la galette des Rois, sacrebleu.

"Sì è questo", dice lei dopo un'iniziale esitazione. Stampiamo, ce lo leggiamo, e per tutte le vacanze ripetiamo meccanicamente, fino allo sfinimento "Si tu trouves la fève dans la galette/Tu mettras la couronne sur la tête/Si tu n'la croques pas/Si tu n'l'avales pas/Alors ce sera toi/Qui sera la reine ou le roi!" 

L'altra sera però, come un fulmine a ciel sereno la Ciccia scopre invece che la poesia che abbiamo imparato è sbagliata. Dopo quell'attimo di sbandamento che coinvolge pure la gatta, le mie esternazioni represse ma comunque sempre votate alla tranquilla e civile critica nei confronti della mia adorata pargola e della sua di lei altrettanto adorata genitrice   (macazzocazzocazzosietetuttoilsacrosantogiornoingiroinsiemeamammeecompagnieanessunoèvenutoinmentedipensarciprimadistaseraporc@!#+*!!!) mi do un contegno e studiamo insieme una strategia di guerra. Non c'è santi, la mattina dopo ci sarà l'interrogazione ed arrivare con una poesia diversa potrebbe dare un minimo fastidio la docente, ed influire conseguentemente sul voto.
Si deve imparare entro stasera. Indossiamo l'elmetto, ci passiamo due dita di nerofumo sotto gli occhi e pronti alla pugna.
Google traduttore è una meraviglia, ci copincolli la poesia e se pigi quel tastino con l'altoparlante, una signora, dall'altro capo degli altoparlanti recita la stessa, con l'erre moscia d'ordinanza e la pronuncia più consona. Devi metterci ad arte qualche puntino nel testo per costringerla a darci un attimo di respiro altrimenti lei la dice tutta d'un fiato e la piccola si smarrisce già alla seconda strofa.

La piccola, complice però la fase digestiva tipica del dopo spaghetti con le cozze, si smarrisce comunque. E allora si traduce in italiano per trovare un senso alla cosa, gli si dà un senso logico, si organizza un percorso mnemonico, si ascolta e si ripete, si ripete e si ripete. 

Questo è un piccolo cameo del dialogo realmente avvenuto:
Ciccia: "...Qui a.. la fève et.... la couronne?
             ..........................................
             .........................................."

Io: " e poi?"
Ciccia: "Zitto che poi mi distrai!. Ehmm..... Qui a la fève et.... la couronne?...... et la couronne?... scusa, cosa c'è dopo la couronne?"
Io: "La carta".
Ciccia: "Qui a la fève... et... la couronne? ...La carta..... La carta? Sicuro che c'è scritto davvero la carta??"
Io: "MA NON LA CARTA, LA CARTA COME SI DICE IN FRANCESE!!!"
La consorte, da sotto: "MA COSA GRIDI, CHE I VICINI SENTONO!!!!"
Io: "E COSI' ALMENO SI FANNO UNA CULTURA, BONSOIR LES VOISINS!!!!"
Ciccia: "ZITTI CHE MI CONFONDETE E CHE MI TOCCA RICOMINCIARE!! Qui a la fève... et... la couronne? ...Com'è già che si dice carta in francese?"
Io: "... papier.."
Ciccia: "Qui a la fève... et... la couronne? Papier d'argent o papier d'or?"
Io: "No, è il contrario..."
Ciccia: "Ma così non fa rima!"
Io: "Ma neanche al contrario, non è che "on" e "or" facciano proprio rima!"
Ciccia: "Ma non è mica giusto!"
Io: "Adesso affitto un caccia e vado a bombardargli il Palazzo dell'Eliseo per rappresaglia, d'accordo? Ma vogliamo andare avanti?"
La consorte, da sotto: "MA CICCIA, HAI STUDIATO RELIGIONE?"
Io: "RELIGIONE????? MA DA QUANDO IN QUA SI STUDIA RELIGIONE????"
Ciccia: "Si, l'ho studiata oggi."
Io: "MA DA QUANDO IN QUA PORC@!#+*!!! SI STUDIA PRIMA RELIGIONE E LA SERA FRANCESE???"
Ciccia: "Qui a la fève... et... la couronne........?

Siamo andati avanti così fino all'esaurimento. 
Ad ora tarda, alla quarantesima volta che nonostante la correggessi mi pronunciava "souvent" proprio "souvent", esatto così come vien scritto, mi sono leggermente alterato. Ho provato a telefonare ad Hollande per far cambiare la pronuncia dalla lingua ufficiale francese ma non me l'anno voluto passare, ho preso tra le mani il volto della mia ciccia e guardandola fissa negli occhi le ho detto "suvon, suvon suvon!" per circa quindici volte di seguito.
Le si sono riempiti gli occhi di lacrime e mi ha detto: "Cosa ci posso fare se non sono brava come te?"
Sapete, io sono un orso, ma di quelli di pezza che si vincono al tiroassegno. Che basta centrare un barattolo e te lo porti a casa. Mi sono vergognato e la sono abbracciata a lungo, l'ho confortata, le ho asciugato le lacrime, le ho fatto il solletico facendola ridere e le ho spiegato che non riusciva ad impararla solo perché era tardi ed era eccessivamente stanca. Poi l'ho accompagnata a letto, mi ci sono sdraiato vicino, e sussurrandola come una ninna nanna, le ho recitato la poesia, un'altra volta, e un'altra volta ancora, così tante volte che non so, sempre tenendola abbracciata, fino a sentire il suo respiro abbandonarsi al sonno. 

Il giorno dopo, verso l'ora di pranzo mi arriva questo messaggino:
"Ho preso 9 della poesia, grazie Totsonino mio".

E adesso lo so che siete curiosi come delle scimmie, eccola in tutto il suo splendore, la nostra fatica di ieri:

Galette des Rois 

Qui a la fève et la couronne? 
Papier d'or ou papier d'argent? 
La galette était bonne 
Et la fève dedans. 

Petit roi d'amour aux yeux de velours 
Choisis la reine de ta cour! 

Gentil Roi, bois! Mais n'oublie pas 
Que le bonheur même des Rois 
Ne dure souvent qu'un seul jour..
E ditemi voi se è o non è una poesia di merda.

martedì 8 gennaio 2013

Chi ben comincia



"Si riconoscono esiti di rottura completa del legamento crociato anteriore", recita il referto della risonanza magnetica eseguita qualche giorno prima di Natale e ritirato l'altro ieri, oltre ad una decina di altre righe in cui vengono elencate sfighe e magagne di minor conto. Ecco spiegato bello lampante il motivo per cui da qualche mese in qua non  riuscivo più a correre decentemente. Era solo una conferma, il mio luminare lo aveva già anticipato scuotendo pensoso il testone, ma la certezza della situazione che traspare da quelle foto patinate fatte come si affetta il salame non mi ha certo tirato su il morale. 

A dare ascolto al mio meccanico poi, dovrei decidermi e farla finita una buona volta con l'accanimento terapeutico che sto operando da troppo tempo nei confronti della mia quattrocentoepassamilachilometrimunita vettura, ringraziandola con una amorevole pacca sul cofano per tutte le strade percorse insieme, per le troppe corse sempre al di sopra delle righe e lasciarla riposare finalmente, dimentica di iniettori consunti e di ruggine incalzante, a correre libera, là, nelle più alte autostrade del paradiso delle macchine, dove l'autovelox non esiste e le multe ti vengono contestate solo da ammiccanti poliziotte sexy, in shorts e camicetta sbottonata.... Oops scusate, l'immaginazione ha fatto uscire me di strada per un attimo. 

Non ha più senso ripararla, dice lui, non conviene. Sarebbe opportuno dargli ascolto, non fosse che, con le mie finanze al lumicino - più che un lumicino sono ormai ridotte ad un fuoco fatuo - mi posso permettere l'acquisto di un veicolo usato sì, ma non delle sue portiere. Ed a Torino senza portiere fa freddo per diversi mesi all'anno, vi assicuro. E Bucodiculoplace è pure peggio. Pensandoci bene mi sa che non mi ci rientra nemmeno un motore. Una bell'automobilina cabrio a pedali, in sintesi. Ho dato un'occhiata in rete in questi giorni e la desolante realtà mi ha schiacciato sotto tutto il suo peso: in pratica ho la possibilità acquistare solo autovetture più vecchie di quella che già possiedo. Ed alla mia età e per l'impegno che ci ho messo per arrivare fino a qui tutto questo è proprio una bella dose di stima in aggiunta. Il morale è alle stelle. Mi verrebbe da gridare Yuppieeee!, ma mi esce solo un  'fanculo mormorato piano.


Già. E poi c'è anche la faccenda dell'età a rompermi i cosiddetti. E quella torta che, nonostante avessi apertamente minacciato il pasticciere, è arrivata comunque, con il numero pure bello grande e la grazia di una candela sola per fortuna, ed allora ho provveduto a correggerla opportunamente. Cinq... non riesco nemmeno a pronunciarlo, a pensarci mi manca il fiato. E non ditemi che sarà per l'età, non vi ci mettete pure voi, sù.
Non è vero. Non può essere, tutto questo non ha senso, è sicuramente un colossale scherzo di pessimo gusto, un pesce d'Aprile tirato troppo per le lunghe. Una roba alla Truman Show che adesso esce qualcuno da dietro la tenda, la troupe con le telecamere e mi urlano "Sorpresaaaaaaaaaaaaaa!!!", mi spiegano che mi han ingarbugliato i conti e mi ridanno una carta d'identità con gli anni veri, quelli che sento, quelli che ha senso avere per poter ancora guardare lontano, per sperare, per correre forte, per averne di strada così tanta davanti da potersi pure permettere di sbagliare. O magari adesso mi do un bel pizzicotto e mi sveglio ritrovandomi magicamente con quelli che so di avere per certo, che ho pesato e vissuto rendendomene conto giorno dopo giorno e che sono qualcuno di più di quelli che ha la mia Ciccia, non tanti però. E via di botto gli spruzzi dei capelli grigi dalle tempie, via le lenti a contatto, nuova aria da respirare, da gonfiare i polmoni. Ma puoi pure farti venire il livido sul braccio a forza di pizzichi, le cose non c'è verso che cambino. 
A quell'età lì poi, uno dovrebbe aver una strada bella tracciata, definita e sicura. Certezze ecco, dovrebbe aver certezze, solidità e tranquillità, al posto di tutta questa irrequietezza, questa insicurezza, di queste folate improvvise che quando arrivano devo aggrapparmi per non cadere. Guarda invece quello che ho, quello che so di avere raggiunto, io che non so ancora neppure cosa farò da grande, se il madonnaro o l'astronauta, considera quanto siano deboli oggi tutte le mie certezze e le mie poche convinzioni, questo fragile e traballante castello di carte che ho faticosamente tirato su. Scruta nel fondo dei miei occhi che cercano nel buio di fuori di ogni sera, leggi dentro a questo cuore che gli basta una luna di sbieco per dar di matto senza sentir ragioni né consigli, che non ci crede lui di tutti questi anni passati, che non si arrende, perché è fatto così, è ancora così, ostinatamente casinista e disperato, a volte, un frullare impazzito d'ali nel petto tante altre, ma quasi mai tranquillo.
E' stato tutto così veloce che non ha senso. Non possono essere cosi tanti questi anni, quelli che dovrebbero aver fatto di me un adulto fatto e finito, io che adulto mi sento ancora molto al di là da venire. Sarò sicuramente eccessivamente immaturo, uno che stupidamente non si arrende all'evidenza dei fatti, che si ostina a non cambiare orizzonti ma non riesco, non son capace di vederla in maniera diversa.
E quindi no, quegli anni lì non possono essere i miei. Ci arriverò, tra dieci, quindici anni, forse. Ma non prima, e non sicuramente adesso.

In pratica, il duemilaetredici inizia decisamente nel migliore dei modi, accontentandosi di poco: come si faceva nel West basterebbero infatti due sole pallottole, per porre fine alle sofferenze di un malandato cavallo e del suo attempato e sgangherato cowboy. Ma con le trafile burocratiche per procurarsi il porto d'armi, la richiesta del finanziamento per potersi comprare un'arma (finanziamento che tanto so che non mi concederanno) le pallottole il cui prezzo è salito vertiginosamente negli ultimi tempi, mi sa che anche quest'opzione non me la posso proprio permettere. Sarà per un'altra volta. 

E quindi 'fanculo.
E non azzardatevi a farmi gli auguri.