martedì 27 novembre 2012

Un nuovo ricominciare


Lo zainetto monospalla blu, preparato in fretta questa mattina presto, ha tutto l'occorrente.
Anche se, a dir la verità, buona parte del ricco corredo di tute e maglie e magliette che prima potevo infilarci dentro ha non ufficialmente ma subdolamente cambiato proprietario. La piccola, che poi se vogliamo dirla tutta proprio piccola non sarebbe il termine esatto da un bel po', appesi al chiodo con mio notevolissimo rimpianto i pattini da ghiaccio ha allacciato con rinnovato entusiasmo le scarpe da atletica, iscrivendosi alla prestigiosissima Bucodiculoplace Running Team. E quando si ha da andare ad allenarsi tre pomeriggi alla settimana, con il clima umidonebbiososchifido di cui il loco medesimo è permeato dai primi di ottobre fino al mese di aprile inoltrato  (per poi lasciare immediatamente posto all'afa umidiccia ed alle zanzare che, lì, giran con la targa come i motorini) la pargola ha necessità di coprirsi ammodo e ripararsi dalle intemperie. Ovviamente, con lo Spread che impedisce al sottoscritto di avvicinarmi tessera alla mano a meno di cento metri da qualsivoglia bancomat, di soldi per magliette e pantaloni termici proprio non ce ne sono. Ma cercando bene, guarda caso, di roba buona se ne ha in casa un sacco, perché il babbo, scellerato dilapidatore di sostanze altrui - Altrui perché non porti il becco di un quattrino a casa da almeno un anno - ha speso e spaso acquistando, stile balocchi e profumi, capi di alta moda e notevole figaccine, elegantissimi e nel contempo in grado di farti sentire al calduccio pure se ti vien voglia di correre in quel del polo. E così ecco risolto il problema, basta arrotolarle le maniche di un paio di risvolti, fare il movimento medesimo con i pantaloni ed guardala lì la mia Ciccia bellissima e atleticissima, pronta a sfidare ogni intemperia con lo stile e la classe esaltata dall'abbigliamento del suo papà. Guardala lì, che cresce, suda e s'affanna, che prova e si confronta, che alle gare arriva come arriva ma non si scoraggia, che dice sono una velocista, e che così, già che c'è, perde pure qualche chiletto di troppo, ma che poi quando torna a casa, vittoriosa per quei trenta sudatissimi grammi  quotidiani persi, si mangerebbe anche il tavolo per la fame.
E tu che non hai più a disposizione tutta quella roba fighissima di cui sopra, vedi lei, sai che grazie a quello non sente freddo e sei felice lo stesso, o forse ancora di più. 
E allora, dicevo prima di divagare,  nello zainetto monospalla blu, preparato in fretta, metti la tuta dell'Adidas, quella estiva, e sotto ci cacci il caldo pensiero di lei che corre riparata insieme ad un maglione di quelli vecchi e ti senti pronto per la pugna. Di nuovo.
Ed oggi vai. Vai e ricominci, che è il tempo di farlo.
Una ginocchiera a tener ben fermo quel ginocchio che matto e malandato lo è da un sacco di tempo, ma che alla lunga si è tramutato in un bel pasticcio, a giudicare dallo sguardo serio del mio luminare e dalle sue parole tidevimettereintestachetidevioperaredinuovo,  mormorate sotto i baffi.

Sai che infilerai tra poco il tuoi ginocchio in quella macchina, che potresti anche intagliarci col temperino "D&R was here", dalle volte che l'hai fatto.
Qualche chilo messo subito sù, perché tre mesi passati senza correre nemmeno per poter attraversare la strada sono micidiali.
E tu ad interrogarti di nuovo perché sai come sarà, ci sei passato già così tante tante volte da far diventare abitudine anche questi momenti. Sai cosa vuol dire l'emozione di rincontrare le foglie secche accartocciate sul viale, sai che sapore sentirai sulla lingua per l'odore di terra umida e di funghi di questa stagione, sai come sarà il rettilineo incorniciato dai platani, la prima curva e subito dopo la leggera salita, le panchine scrostate e le scritte sui muri. Sai la musica che ascolterai passando sotto alberi oramai spogli con il rumore del traffico di sottofondo, cercando di regolare a quella il tuo fiato ed i passi. Sai che quel signore anziano che legge come ogni giorno il suo giornale passeggiando ti osserverà nuovamente passare, sai il profumo delle piadine del chioschetto e subito dopo l'odore dei binari, di ferrovia e di treni veloci che sparpagliano turbini di foglie impazzite, mentre i tuoi passi troppo lenti cadenzano sulla ghiaia. Sai che non potrai contare fino a dieci per un bel pezzo, sai che il battito del cuore tornerà ad essere da infarto già dai primi minuti. Sai che la voce dall'accento inglese di Endomondo interromperà i tuoi pensieri scandendo ogni chilometro percorso usando troppo spesso il sei. Ma a correre con una gamba sola, ti ha detto il luminare guardandoti serio come poche altre volte ti ha guardato, non puoi mica pretendere di andare anche forte. Corri se proprio non puoi farne a meno, ti ha detto, corri in piano, guai a salite o discese, corri senza spingere, che tanto, con i legamenti in quello stato spingere non puoi. Pensa che, per mal che vada almeno oggi è la giornata del "fai felice un altro runner", che a confrontarsi con te ci guadagnerà un sacco in stima.
Le sai, tutte queste cose, le sai, le conosci, le riconosci su di te, ancora una volta, goccia dopo goccia fino a diventare essenza stesse del tuo sentirti e del tuo stare così, oggi che hai voglia di ricominciare. Le sai e sei grato di rincontrarle ancora, di far nuovamente parte di quel viale, di quelle foglie pestate, della tua immagine riflessa sui vetri della giostra per i bimbi. Poco importa se andrai così piano da sembrare fermo, poco importa se l'indolenzimento al petto non ti farà quasi dormire, la sera successiva. Non sai quanta energia sarai in grado di ritrovare ancora nascosta sul fondo, non sai cosa riuscirai a fare, il tempo d'altra parte gioca il suo ruolo ed a te tocca di correre sempre un pochettino più in salita. Non sai, non serve saperlo in realtà, non oggi, non in questo momento almeno. L'importante è liberare i pensieri, che quelli almeno a correre son capaci da sempre, far l'allenamento ai sogni, in modo che possano andare più veloce, più lontano, più forte ancora. Non pensare ai tempi, al fiato, al Cervino o alla maratona di Parigi, non fare programmi, accontèntati del niente. Anzi, non pensare proprio che è meglio, che pensare fa ruggine, pensare non risolve ciò che deve andare così, non pensare alle parole che fan sanguinare - mi sto rovinando la vita per salvare quel cazzo del tuo studio - immergiti ancora una volta nei tuoi sogni, lasciali correre e corri con loro non pensare e non ascoltare, pensa agli occhi di tua figlia che, oggi, corre col cuore al caldo come il tuo. Il vostro traguardo, è tutto da inventare.
Per cui vai. E buon inizio, di nuovo.

lunedì 19 novembre 2012

Cadono gli angeli

Il tuo nome insolitamente pronunciato al telegiornale di ieri. "Lutto nel mondo dell'arrampicata sportiva". Un breve servizio su cosa sei stato più di vent'anni fa, nei momenti del tuo massimo splendore, qualche accenno alle disavventure dell'ultimo periodo e poi via, di corsa, a celebrare l'inutile, lo scandalo di turno, la sfida calcistica del giorno.  
Per noi, i normali, quelli che le mani sugli appigli le abbiamo messe sempre sbuffando e tirando come dannati tu semplicemente non eri di questa terra. Tu e la tua leggerezza, tu e la tua grazia, tu e l'armonia dei movimenti che erano pura opera d'arte. Ho sempre avuto l'impressione che nei tuoi gesti precisi, quell'andare pulito all'appiglio senza un tentennamento, si piegasse la ragione della montagna stessa, venendoti incontro e porgendoti le prese nel modo migliore.
Ho avuto il privilegio di vederti arrampicare una volta sola, a Bardonecchia, alla Militi nell'86, su una via su cui nemmeno i miei momenti migliori avrei potuto fare più di un paio di movimenti impacciati. 
Ti ho visto salire, tu e la tua bandana a raccogliere i  capelli lunghi, il tuo fisico perfetto esaltato da un viluppo di muscoli e grazia. Ti ho visto muoverti come un danseur al rallentatore in pose impensabili elevando il concetto stesso di arrampicata, ho sentito il silenzio ammirato di quelle centinaia di nasi in su, ti abbiamo accompagnato con degli "ohhh!" di meraviglia ad ogni passaggio straordinario superato con una semplicità che non aveva ragione, abbiamo sentito il suono del tuo fiato tirato propagarsi nel vuoto, noi in tanti con il nostro fiato nascosto rispettosamente sotto al tuo, trasalendo con riconoscenza al rumore dello scatto di ogni moschettone nel rinvio, siamo esplosi come matti in un'ovazione da stadio quando hai raggiunto la catena, unico tra tutti, quell'anno. Non un primo perché quel giorno non ci sarebbe stato né un secondo o un terzo. Il migliore. 
Non ti nascondo che alla fine della tua via vittoriosa eravamo in tanti là sotto, a massaggiarsi le dita doloranti. 
Non son un vero climber, così come non riesco a fare il vero runner. Non ho tecnica, non ho la costanza dell'allenamento, la forza nelle dita che distingua, ho una vita che non me lo permette più. Arrampicando qualche volta mi è anche capitato di aver avuto paura, o di chiedermi cosa diamine ci stessi a fare lì, tra spuntoni di rocce ruvide ed il vento che mi schiaffeggiava impietoso, appeso alle mie sole dita affaticate. Non so se tu questo l'abbia mai provato. Ma so sicuramente cosa sentivi quando raggiungevi una vetta ed i muscoli ti ringraziavano allentandosi o ogni volta che tornavi giù, le gambe a penzoloni e la tua vita appesa ad una corda da 10 mm. Quello lo so perché l'ho provato anch'io, ed è una sensazione meravigliosa, unica ed impagabile, che ogni volta vale una vita. 
Ricordo i tuoi equilibrismi, gli appigli monodito che replicavamo massacrandoci i tendini, i filmati sui tuoi allenamenti, il tuo sguardo da angelo silenzioso, il tuo essere un divo ascetico, lontano. Il tuo modo di non essere divo, ma oltre, più in alto, più incredibile, più.

Dicevano ieri che tu poi sia caduto, che la vita stessa abbia, ad un certo punto, smesso di esser leggera e che ti abbia trascinato in basso, cadendo e rotolando fino a fermarti senza, ai piedi di una stupida e maledetta scala. Ho imparato da tempo che anche gli angeli cadono.
Non so, ma questo non mi riguarda, alla fine. Non è quello che mi interessa sapere, il come o il perché. Come in ogni cosa che accade la méta, alla fine, è il viaggio stesso. E in buona parte del tuo viaggio sei stato un idolo, un irraggiungibile, splendido e maestoso punto di riferimento. 

"Da grande voglio fare il sorriso del ne è valsa la pena", ho letto una volta in rete. E ieri, alla base di quella parete desolata, fredda e battuta dal vento ho sorriso per te.

Per cui addio, Patrick, dall'ultimo dei tuoi fans.




sabato 17 novembre 2012

La scelta

Realizzi che, molto probabilmente, è l'unica strada e proprio per questo motivo, forse, non si riesce nemmeno ad essere particolarmente emozionati nel rendersene conto. E' la naturale conseguenza di un momento che non si ha la forza o probabilmente anche le capacità per farlo andare in maniera diversa.
E ti sei reso conto di quanto più contino le persone, i gesti, gli occhi che ti guardano, le mani che si stringono. Conta il coraggio di guardare in faccia quelli che hanno creduto che questa sgangherata carriola potesse correre veloce e forse addirittura alzarsi da terra e che hanno fatto tutto quello che era nelle loro possibilità per farlo. Ed allora sacrifichi la scatola senza pensarci due volte, per salvarne il contenuto, per quegli occhi, per quelle mani, per quei gesti.
Diciannove anni da pochi giorni. Diciannove anni che, se ci pensi, sono veramente passati in un soffio. Tanti i Roberto, i Luigi, gli Alessandro, gli Andrea. E poi Enrico, Paola, Chiara, Antonio, Daniele. Tanti.
Tante le parole, le frasi che qui sono diventate parte di noi, pare addirittura che "nel contesto della situazione" sia stata addirittura pronunciata all'altare di una chiesa. 
Tanti i tappi stappati e poi riposti con cura perché in ognuno di loro è nascosto un ricordo speciale. Tante le parole rilassate intorno al tavolo grande, dopo una consegna, con i progetti belli impilati e timbrati ed i cartoni delle pizze a far compagnia alle bottiglie di birra vuote. Tante le risate, qualche sfuriata epocale, una solo questa mattina, pare che io calmo e rilassato non ci riesca a stare mai. Tanta la voglia di confrontarsi, di crescere. Ho insegnato ed imparato, molto di più sicuramente la seconda, lo penso sinceramente. Ogni singolo pezzo di qui ha la sua storia, i suoi aneddoti, le sue vicissitudini. Il primo oggetto dello studio è un evidenziatore stabilo blu, reso gonfio e grassoccio da un incendio in una baracca di cantiere, che aveva mandato in cenere tutto quello che - e credevamo fosse già tantissimo - allora avevamo. Quell'evidenziatore  è stato il nostro primo mattone e da lì siamo ripartiti ricostruendo, pazientando, recuperando.
Qui abbiamo fatto i muratori, i vetrai, gli elettricisti, i controsoffittatori, i palchettisti, con alterne fortune. Abbiamo montato e smontato mobili, lavorato sotto i nylon, con le scrivanie l'una sopra l'altra. Abbiamo fatto un pranzo di natale incredibile, con squisite prelibatezze che addobbavano il tavolo di cristallo di Norman Foster che, tempo prima, troneggiava nell'ufficio di mio padre.
Un bel giorno abbiamo avuto un sogno e abbiamo pensato che, nonostante volassimo già molto in alto, si potesse osare di più e, prendendo quell'occasione al volo, abbiamo comprato. Era già casa nostra qui - cosa che tra l'altro fa girar le balle alla consorte - perché questa l'avevamo resa nostra prima ancora: l'avevamo costruita, plasmata quasi con le nostre mani, rendendola col tempo così tanto simile a noi.
Qui davanti, mi han portato i miei piedi, quel giorno che ho salutato per l'ultima volta lui, il mio più grande punto di riferimento.
E troppo in fretta è diventato lo studio delle rose e del pino maestoso, della vite che adesso ha quei colori di freddo e di autunno, delle vetrate che la luce entra a cascate, è quel posto che chi entra per la prima volta si guarda in giro e si stupisce perché sente che è un luogo speciale. Sono i gradini su cui mi siedo d'estate per parlare al telefono con la mia Ciccia, è la pianta di limoni che quando fiorisce nella veranda spande il suo profumo di maggio anche a novembre, è la cantina con i suoi quasi duemila faldoni dei lavori. Sono i computer che hanno i nomi di quelle persone che son rimaste più piantate nel cuore e che non si cambiano. Qui sono nate le idee più bizzarre davanti alla macchinetta del caffè, qui sono nate amicizie che oltrepassano gli oceani qui si sono asciugate lacrime (causate anche dalla lettura di qualche mio post, e non so proprio bene se questo sia un complimento o meno). E' il rumore della pioggia che rimbalza e suona sul tetto, sono i gatti randagi che mi osservano curiosi dal balcone del vicino. E' il portone, che, nonostante tutto questo tempo, non ho ancora capito di che colore sia. Qui mi sono seduto per la prima volta, a scrivere in questo posto nuovo che mi ha portato lontano. Qui ho vissuto, parlato, sognato, amato, anche dormito
Ed anche la luna, vista da qui, ha un'espressione diversa.
Un giorno, smontando un pc ho trovato, scritto sul case, a matita, la frase scritta anni prima "computer di m**, ti prenderei a martellate. Ed il mio studio è composto da mille bellissimi mattoni come questo.

Ed anche se oggi si scopre che il gioco è andato storto, hai pescato male tra gli imprevisti e ti trovi qui, a passare un'altra volta dal via senza prendere niente, non serve prendersela troppo con la sorte e le carte sbagliate. Non serve. Hai giocato, ed hai vinto comunque. Basta la gratitudine che nutri per questi muri e per i passi di tutti quelli che sono passati di qui per dire che la partita è stata un successo.
E tiri i dadi di nuovo. ricomincerai un'altra partita, sperando nelle coppie di numeri che ti permettano un'altro tiro, per ricominciare, vicolo stretto e vicolo corto, magari un Parco della Vittoria prima o poi ci dovrebbe anche capitare. 
So che qualsiasi altro posto ci troverà ci renderà diversi.
E che nessun altro studio sarà uguale. 

lunedì 12 novembre 2012

dodici, undici, dodici



"Era la dichiarazione d'amore più tenace che il porto di Amsterdam avesse mai ascoltato.
Era la promessa di un'attesa, era la dichiarazione incontrovertibile della loro unità.
Era un arrivederci.
Certi anni passano come gli attimi.
E certi attimi, non passano mai."
[Lorenzo Licalzi, L'Uomo dei Tulipani.]

sabato 10 novembre 2012

Dio non esiste.



La prima parte di questo post è datata agosto. Poi forse ero troppo furente e confuso ed allora l'ho abbandonato lì, a sedimentare un po', a lasciarsi ricoprire e raffreddare dalla corrente dolce delle cose. Quest'oggi l'ho ritrovato, ho scavato da me per aggiungervi quello che ancora doveva venir via e l'ho messo qua. 

Un agosto come quello di quest'anno, con quel caldo appiccicoso che non puoi andare a correre prima delle nove di sera e l'impossibilità di pensare nemmeno a due giorni di mare, non ci era ancora capitata. In montagna, visto il clima che si respira all'interno di quelle mura - e si dice che sia tutta colpa mia e della mia elasticità simile a quella di un paracarro - la consorte ha deciso che non si va. Ed allora non ci rimane altra scelta di una permanenza forzata in quel di Bucodiculoplace, si lavora però si torna presto, si esce prima di cena con la Ciccia che mi fa da coach in bici e ride del mio fiatone. Si frequentano quei pochi amici comuni che abbiamo e che, come noi, han giocoforza optato per un'estate al risparmio. Si cerca di farne comunque vacanza, di ridere e ridere, di giocare spensierati, di far buon viso ad una sorte non certo propizia. La Ciccia è felice lo stesso senza retropensieri, il suo centro dell'universo sono ancora e sempre io, il mondo è solo il contorno, ed avermi tutto per sé è una pacchia che le capita di rado, basta che stiamo insieme. E così insieme siamo, passeggiamo per vie assolate del centro, entriamo in musei curiosando come matti, assaporiamo gelati riposandoci seduti sulle panchine all'ombra di platani secolari, mangiamo schifezze quando ne abbiamo voglia, la sera ci addormentiamo mani nelle mani e mani nelle mani la mattina ci risvegliamo.

Un paio di volte, insieme ad una coppia di amici con figliola al seguito, ci concediamo il lusso di una giornata intera passata in uno di quei classici posti da estate in città, con piscine di ogni forma e profondità, ombrelloni, scivoli e chioschetti di bibite. Il posto è in una città vicina e se ne parla bene; sembra pulito, bene attrezzato e non ti massacrano troppo, alla cassa dell'ingresso.
Arriviamo, entriamo, la gente è tanta ma il posto è abbastanza bello, pulito ed ordinato. Fa un caldo torrido, ci sono le piscine per i bambini e per gli adulti, quelle con la sabbia, per i tuffi, scivoli di ogni colore e pendenza e ci sono bagnini in ogni posto, due o tre per zona, e il livello di attenzione è notevole. Il tempo di trovare un paio di sdraio che io e la mia Ciccia non useremo mai e siamo già in acqua, a rincorrerci, tuffarci, scherzare. Facciamo così da sempre, la consorte che invece è un tipo da sdraio e parole crociate, si sistema e si raccomanda un passaggio dalle sue parti almeno ogni due ore. 
Giochiamo, proviamo gli scivoli, prima quelli più facili poi quelli sempre più ripidi, ritorniamo in vasca quando la coda è troppa, scherziamo, ci schizziamo, facciamo le verticali, le gare di apnea dove, per fortuna, vinco ancora io, anche se mi sorprendo dei suoi rapidi avvicinamenti. Troppo in fretta arriva l'ora di pranzo, ci sistemiamo di malavoglia all'ombra degli alberi, buttiamo giù qualcosa di veloce, mordiamo il freno perché quello è il momento migliore, gli scivoli sono quasi tutti vuoti. Appena ci danno il permesso siamo di nuovo là, a sfidarci, a vedere chi schizza di più la folla quando arrivi giù come una palla di cannone.

Accade tutto mentre siamo impegnati sullo scivolo blu, quello che si fa seduti su un salvagente cercando di non ribaltare nelle paraboliche. Arriva giù prima mia figlia e poi, subito dopo io. All'arrivo la consorte ci attende. Ha quegli occhi che sai che è capitato qualcosa, anche se è distante, anche se non parla. Penso subito a mia madre, alle nostre stupide incomprensioni. "Cosa è successo." mi avvicino per chiederle. 
I suoi occhi si riempiono improvvisamente gonfi di lacrime e riesce solo a dirmi "un bambino", indicando la vasca grande, a pochi passi dalle sedie a sdraio dove ci sono i nostri asciugamani.
Il bambino è disteso sul bordo. Intorno il personale della piscina e due persone, quasi sicuramente medici, che stanno prestando il primo soccorso. 

Il silenzio improvviso è pesante, inonda la scena e la rende irreale. Il mondo si ferma. l'acqua è uno specchio azzurro, immobile. Le persone sembrano congelate, tranne quelle che si muovono freneticamente intorno a quel corpicino immobile. I genitori sono lì, la loro disperazione è uno strazio che si propaga e fa un contrasto acido con il silenzio quasi vergognoso degli altri. 
Il braccio del bambino penzola, la mano quasi galleggia carezzando l'acqua, e piccole ondine si propagano lievi. 
Guardo in giro. Tutti, nessuno escluso, tengono abbracciato il proprio figlio, aggrappati, stretti, con gli occhi fissi su quel punto, l'unico punto dove un bambino non può vedere i propri genitori. Anch'io. Tengo la mia Ciccia stretta perché c'è qualcosa di malvagio che vola e che vuole portarsi via i bambini. Tengo la mia Ciccia stretta perché in quel contatto che profuma di pelle bagnata c'è tutta la mia vita, perché solo sentirne il battito del cuore, lieve attraverso le mie dita, mi fa star bene. 

Il piccolo non riprende conoscenza, arrivano rapide due ambulanze, la polizia. La dedizione di ogni persona impegnata è assoluta. Non parla nessuno, il piccolo non riprende conoscenza, le voci dei medici risuonano secche e distinte. Solo un lamento di bestia ferita che è il dolore più ancestrale e puro, le grida di chi vuole strappare questa giornata a brandelli e ricominciare da capo, impedire l'impensabile, risuonano più alte. 
Continuo a tenere la mia Ciccia stretta e mio malgrado non posso impedirmi di stare bene, me ne vergogno perché lì la madre di tutte le tragedie si sta consumando ed io non riesco comunque a non essere egoisticamente felice per me. Ed anche nella stretta che lasciano le mani degli altri genitori sulle braccia dei propri figli leggo una felicità colpevole. 

Non sono lì. 

Il rumore delle pale di un elicottero in rapido avvicinamento ci distrae dalla scena, atterra, i lettini vengono rapidamente sgomberati, un cancello con un lucchetto divelto dalla gente che aiuta come può. Arrivano i paramedici con la barella, caricano su il corpicino inerte e si allontanano accompagnati da una specie di applauso imbarazzato. Poi velocemente, in una nuvola di polvere spariscono. 

Ci si guarda smarriti. Abbiamo tutti lo sguardo sgomento, siamo incapaci di tornare a parlare con un tono di voce normale. Qualcuno piange, qualcun altro a quel punto si sente male, i più incominciano a metter via gli asciugamani ed i giochi. Solo i bambini più piccoli riescono ad ottenere il permesso di giocare ancora nella vasca piccola. Usciamo silenziosamente, saranno le sei del pomeriggio, nonostante il sole ancora alto non fa più caldo. 
Ed io non riesco a non pensare agli occhi di quell'uomo che non voleva allontanarsi da lì, non riesco a non pensare a quelle urla a quella voglia di strapparsi la pelle di dosso che è rabbia, che è la lotta contro gli dei. Non riesco a non pensarci perché tempo fa mi ci sono trovato anch'io, a due passi da quel dolore così. A me è andata bene, le parole di mia figlia al suo risveglio non le baratterei per nulla al mondo.  A loro no. Finirà così. Lo leggeremo sui giornali due giorni più in là.
"Dio ti ringrazio", ho sentito una mamma mormorare piano, mentre guardava suo figlio. So esattamente cosa provava. Perché l'ho pensato anch'io.
Ma quale Dio può permettere una cosa così. Quale Dio può concepire un disegno così malvagio, quale essere che si dice governi ed osservi le nostre vite, può essere così spietato. Perché, ci hanno inculcato da piccoli, tu devi passare un'intera esistenza a non commettere peccati, a pentirti se li commetti, non puoi desiderare le donne e le cose degli altri, non puoi dire il falso, non puoi nominare il nome di Dio invano mentre Lui, se esiste, può strapparti la vita dal petto a suo piacere e tu devi chinare il capo, ipotizzare in questo un disegno divino destinato a renderci migliori ed accettare la volontà di Dio? Perché?
Perché c'è qualcosa di sbagliato al mondo se un bambino muore, che sia in piscina a due passi da qui, per fame in Africa o sotto un bombardamento dall'altra parte del mondo. C'è qualcosa di sbagliato ed oltraggioso per lui, per i suoi genitori, per il mondo stesso e per me che ero contento di non essere al loro posto. C'è qualcosa di assurdo e di ottusamente ingiusto, nel non poter avere influenza sul destino e sul tempo, nel non poter essere mai arbitri né giudici ma solo carne da macello. Non è così che un Dio giusto, se mai esiste, può gestire le cose. 
Ed io, spero almeno per lui che non esista. 

"Quale sarebbe la morale di tutta la storia? Nessuna. 
Se è vero che chi muore giovane è caro agli dei, allora gli dei sono davvero dei gran pezzi di merda."
http://bop.iobloggo.com/#3301465 [Chi muore giovane è caro agli dei bastardi]

lunedì 5 novembre 2012

Sera di vento

Di tempo ne è passato parecchio, da quelle volte che mi mettevo qui, la sera, accantonate per qualche minuto le sudate carte sulla scrivania, mi riservavo uno spazio per me e per me soltanto e poi lasciavo andar le dita e le parole, che scivolavano giù facili come perline dal filo di una collana. Ne è passato ed a volte mi sorprendo a pensare come abbia fatto in passato a giocare con tutta quella leggerezza ed a trovarne così tanto, di tempo, da dedicare a me stesso, sprecandolo in sogni perfino un po'. Ma sono ancora una volta qui, questa sera va bene così, la mia Ciccia bellissima è a festeggiare la sua cugina preferita che compie gli anni, non sente particolarmente la mia mancanza ed io, sinceramente ho meno voglia del solito di stare con il mondo, non ho desiderio di nient'altro che star qui, ad ascoltare il vento che scuote rabbioso le tende di fuori e la vite colorata d'autunno, a far finta che niente sia cambiato, che ad ogni cosa si troverà comunque un rimedio, che tutto si incastrerà incredibilmente come le tessere di un puzzle e che mi sorprenderò ancora - tra qualche mese o qualche anno è lo stesso - a guardarmi indietro e a dirmi "lo vedi, che in fondo non era niente?". 
Il vento scuote le ampie vetrate di qui con folate improvvise, che si sentono arrivare da lontano con un rumore ringhioso come di rombo d'aereo, e le correnti fredde riescono a passare intrufolandosi da chissà dove, forse dai lucernari del tetto, forse da una finestra mal chiusa ed invadono lo spazio che c'è qui, giocano con i fogli e con me, mi regalano carezze gelide tra il collo e la camicia aperta e leggeri fiati profumati d'inverno che scorrono sulle dita. 
Cambiano le cose, cambiano. La visione delle cose alla fine, anche se non vorresti, cambia anch'essa. Cambiano le prospettive, le capacità, le possibilità. Non hai più vent'anni, anche se ti sembra a volte che i vent'anni tu non li abbia ancora raggiunti, o che qualcuno te ne abbia ad un tratto nascosta una parte, che siano stati trafugati, che tu li abbia trascorsi dormendo, perché non è possibile che tanta parte di questo sia così inutilmente già diventato passato. 
E così ti fermi ed ascolti, ti chiedi di quante volte sarai capace ancora, se saprai guardare più avanti ed affrontare le sfide della sorte e del tempo, se vorrai rimettere l'ostinazione sopra ogni cosa, e ricominciare, senza farsi sommergere dalle onde di un mare che le onde, la sera, sembrano più fredde e più cupe. Sarò un'altra volta capace, senza dar troppo peso alla fatica, a ricominciare ancora ed ancora, nuovamente tutto da capo. Senza guardare troppo lontano per non scoraggiarsi. Poco più in là della punta delle proprie speranze.
Riassaporare l'odio per le stampelle, i calli nel palmo delle mani, dipendere dagli altri per muoversi. E poi, mordendosi le labbra per la rabbia, risalire ancora una volta la china. E l'importante sarà, come al solito, non dare troppa importanza alle cose. Le cicatrici restano. Quello che senti, con la punta delle dita a seguirne il contorno, riposa sotto.
Il vento si appisola un poco, ritorna, svanisce di nuovo. Le pigne strappate dal pino maestoso si sono radunate esauste in un mucchio disordinato ai piedi delle rose, stanche di giocare ad un vorticoso girotondo mentre il nero di fuori si infrange sui riflessi delle luci gialle dei lampioni. La musica accompagna e rende più facile le cose, come sempre quando è così. 
Le cose si aggiustano. Così come le parti di me che a volte sembrano così stanche e logorate da essere sul punto di spezzarsi, come se concentrassi su queste tutto lo sforzo per preservarne altre. 

Ma stasera è una sera di vento, che mi regala i pensieri di un tempo, che sposta i colori della notte in turbini improvvisi, che mi scivolano poi piano accanto, in fiati sottili ad accarezzarmi le dita. 

Domani, tutte le strade che potrò attraversare correndo e quello che verrà, sono sogni ancora nascosti.