martedì 21 agosto 2012

Scrivere

La voglia di scrivere è una faccenda strana, che non sai né come né perché ti prenda.
Ci sono momenti in cui è esigenza che ti morde piano, sotto la pelle, intima e pressante, altre volte è un solletico alle dita, è la voglia di scherzare, di giocare con le parole, gli accenti e la punteggiatura. 
Un po' come correre. A volte è la periodicità e la costanza dell'allenamento, ma è quando ne senti il bisogno dal di dentro, che ne vien fuori qualcosa di diverso.
Ho scoperto che scrivere ha sempre uno scopo, una finalità, anche quando scrivi di niente: prendi questi minuti, per esempio. Per me, in questi spazi ed in questa maniera, è un gioco relativamente nuovo rispetto a tutto quanto abbia mai fatto fin'ora e che mi abbia regalato emozioni. Non ho graduatorie, non potrei dire cosa preferisca, tra arrampicare, scrivere, disegnare, correre o perdermi nelle vie di quelle città che amo.  So che c'è un momento diverso per ogni cosa, basta rendersene conto in tempo. 
Ed il momento di adesso è qui. A battere sui tasti senza grossi pensieri, senza troppi sassi pesanti, o forse con gli stessi sassi di sempre che hai imparato ad averli addosso e ti pesano meno, è lo stesso; ad ascoltarmi dentro, a leggermi poi alla fine, per capire cosa volevo farmi sapere.
Accade che le parole che escono siano fatte per altri, il più delle volte per me. Che poi ci sia davvero qualcuno dall'altra parte di queste righe poco importa, anche se questo non è poi completamente vero, certo che importa (un po' di ragione devo dartela, Bruno). Certo che conforta, condividere fosse anche solo un sorriso, distante chissà quanti chilometri. Certo che sorprende, trovarsi inaspettatamente equilibristi sulla stessa fune. In effetti mi sorprende ancora che ci siano persone che capitano in queste pagine da posti lontani. Non tante in realtà, non è mai stata né un'esigenza né una priorità ampliarne il numero, curare followers o cose del genere. Non conosco nessuno o quasi, di chi legge di me, qui, ma non è che sia poi così importante. Può nascere, ovvia, la curiosità qualche volta, quando succede che pensieri affini si incrocino così imprevisti, quando le parole rimbalzano sullo specchio d'acqua delle sensazioni di chi legge, creando piccoli centri concentrici che si propagano piano, ma è giusto che le cose rimangano così, per evitare che si incrini quella meraviglia semplice ed incredibile, una sottile eco di note lontane, le cose che sai, le cose che so, le parole che leggi sono il rumore delle fronde della betulla che muove il vento, perché a questo sto pensando in quest'istante e questo mi va di scrivere, sono le mie rose di qui, stanche ed accaldate, che puoi immaginare, oltre le vetrate del mio studio, il muro sbrecciato di fuori, la moto a riposarsi all'ombra del pino maestoso e dentro Il tavolo riunioni sgombro, le scrivanie vuote e ordinate come non mai, il calendario con evidenziate le città dove ci sono i nostri lavori, la veneziana a mezz'altezza ed i mille riflessi di quel pendente appeso, legato stretto da quel giorno là, che a volte potrebbe non essere mai esistito ma che invece c'è. 
Ed il più delle volte non c'è motivo, che ci sia qualcuno che legga. Basta averlo scritto, per me, unguento se qualcosa sotto ancora brucia. Poi è come se non appartenesse più a nessuno, se non servisse più. Chiuso nella scatola, appeso con le mollette al solito filo, a sventolare pigro.
Perché alla fine non c'è proprio niente di che, in quello che la mia tastiera raccoglie, oggi o ogni altra volta che capita. Forse perché non penso io stesso di essere niente di che. Ma di sicuro so cosa non c'è.  Non c'è in quello scrivo che ciò che non sento e che non sono, quello che non provo, e tutto quello che potrei falsificare, stravolgere, gonfiare. Non c'è perché molto probabilmente, non ne sono capace, ecco tutto. 
Quindi niente di fondamentale, in tutto questo né in me, assolutamente. 
Nemmeno per sogno. 
Beh, forse per sognare sì. E per correre. Altrimenti dovrei cambiare il nome di questo posto qui, che non è un blog, è solo un foglio atipico e strano, dove lascio che le mie parole scorrano libere come vogliono, vere e mie dalla prima all'ultima, dove le mie rose crescono, dove le fronde delle betulle ondeggiano piano, laggiù in fondo al mio prato dove ancora una volta mi piace abbandonarmi, un filo d'erba tra i denti, a guardare in su, le nuvole passare, e quel pendente che no, non smette di brillare.

martedì 14 agosto 2012

Attesa


La pausa, forzata, quando arriva arriva. 
Ed adesso che è arrivata me la prendo. Qualche giorno, non so dire quanti con precisione, dovrò chiedere il permesso alla mia Ciccia, che mi reclama, e ne ha ogni diritto. E forse, ho bisogno anch'io di allontanarmi da qui, tregua, dalle grane, i lavori, la gente. 
E' un Ferragosto anomalo quest'anno. Niente Vacanza quest'anno di quelle con la V maiuscola, il viaggio con la macchina stipata che sembriamo prossimi ad un trasloco, niente mare né nuotate io e lei, maschera boccaglio e mano nella mano anche in acqua, con la consorte (che galleggia come un ferro da stiro) ad osservarci da sotto l'ombrellone.
Niente mete lontane, niente isole. Si chiude qui, per andare, onestamente non so dove. Molto probabilmente per stare, fermarsi, respirare. 
Qualche dissapore di troppo all'interno di quello che resta della mia sgangherata famiglia di là, tra i monti. Ed io che non faccio niente per stemperare gli animi ed aprire spiragli, anzi. In tanti mi dicono di smetterla, di godere della vicinanza dei miei cari fino a che uno ne ha la possibilità. Lo so, lo so mille volte. Ma una volta là non riesco a non pensare, a non vedere le cose che mi appaiono stonate e forse magari non lo sono neppure, a non chiudermi a riccio, un muro opaco, senza espressione. E per evitare di oltrepassare i limiti, che quelle rare volte che è capitato ho combinato disastri di quelli che lasciano il segno, allora non esisto, rispondo educatamente se interrogato, a tavola passo il pane e mi alzo solo dopo che tutti han finito di mangiare. Ed ogni volta che me ne vado, mia madre che non mi ha rivolto una parola per  tutto il fine settimana e né io a lei, piange in silenzio.
Porto le scarpette per correre, certo che sì. 
Vado davvero, mi prendo una briciola di pausa, piccola piccola. Mi allontano da qui. Chiudo la scatola, e senza fare rumore, lascio a riposare i sogni e le parole. 
Buone vacanze.

L'acquasanta ed il diavolo

Prendi una giornata di lavoro, una di quelle classiche: arrivi in studio che ancora non c'è nessuno, innaffi le rose, poti la vite, osservi un pò quel microcosmo del tuo quartiere che pigramente si sveglia e nel mentre riordini le idee un pò da tranquillo e ti fai uno schema delle cose da fare. Poi accendi il pc, elimini la consueta montagna di mail spazzatura e rispondi a quelle tre o quattro serie. Alle otto meno qualcosa la consueta prima telefonata di lavoro, che oramai rispondo cose del tipo "massaggi olientali buongiolno?" o "Pizzeria Posillipo", tanto lo sai chi è. Dopo, alla spicciolata arrivano gli altri e lo studio come ogni giorno si riempie. il profumo del primo caffè mentre viene su, quattro chiacchiere, un paio di indicazioni su cosa deve essere fatto in tua assenza e poi via. Oggi due cantieri e la  consueta manciata di chilometri da buttarsi alle spalle. 
La telefonata di conferma arriva mentre sto andando verso il primo dei due. Il tono è da cospiratori, ma Il messaggio non ammette repliche. 
Ok, non sono in condizioni di dire di no. D'altronde non me lo immagino nemmeno. Devo solo vedere di recuperare l'imbrago, in prestito in chiesa (questa la spiego dopo). Per fortuna la chiesa è il secondo dei due cantieri di oggi. Un campanello d'allarme mi avverte che c'era un qualche impegno, in qualche altra parte, ma non lo focalizzo, non deve essere importante.
Il primo cantiere è una banca, progettata e realizzata in estrema urgenza: due mesi fa circa, un guasto notturno ad un pc aveva innescato un incendio che, a partire dalle pareti in legno di una cassa si era poi esteso distruggendo metà dell'agenzia, mentre il fumo acre, denso e nero aveva completamente invaso ed impregnato ogni stanza, ogni armadio, ogni oggetto dell'altra metà. La desolazione che lascia un incendio è impressionante, l'odore ti prende alla gola, il pulviscolo nero, i cumuli di materiale irriconoscibile, fili di plastica, sottilissime stalattiti, pendono da quelle che una volta erano lampade, sciolte e nuovamente indurite, la struttura metallica  del controsoffitto contorta dal calore ed il nero, nero dappertutto, nero che copre, che prende ed opprime. E adesso che non ne rimane più niente, di quel nero, che non sembra sia mai successo niente, non uno sbuffo di fumo su una parete, né un sentore di bruciato lontano, niente, eccola qui, una filiale lustra ed abbagliante, perfetta, tutta tirata a lucido, con i mobili nuovissimi, le scrivanie ordinate, le luci, le tende, tutto a tempo di record. I complimenti, questa volta L'impresa se li merita tutti. 
Scappo, via di corsa, che il tempo si disperde in rapide volute di  fumo, via per il secondo cantiere, mi attende la chiesa. Una mia personale sfida questa, ho fortemente voluto quel progetto, quell'illuminazione, pensata così, studiata così, da gestire così. Ho prima combattuto con la Curia e la sua Congrega dei Saccenti, che han guardato con supponenza sia me sia il mio progetto e poi ci han scarabocchiato sopra prima c'è troppa luce e dopo ce n'è troppo poca, ma cosa ne vuoi sapere tu che non sei del giro, tu e i tuoi capelli lunghi che si vede che sei lontano da qui, da noi, che non sai nemmeno cosa sia un ambone, che hai gli occhi arroganti, e non hai né umiltà né deferenza. E credevo talmente in quello che avevo fatto che ho riposto le armi delle parole taglienti che erano già lì belle e pronte, sostituendole con la calma e la pacatezza, ed anche se qualche madonna e qualche santo mi sono arrivati proprio fin sulla punta della lingua li ho ricacciati sapientemente indietro e ho risposto punto su punto, spiegando e persuadendo. E poi è stata la volta della Soprintendenza, che pare che a fare un buco in un muro marcio per far passare un filo sembra si commetta un peccato mortale, e a portare la corrente a secchiate, giuro non sono proprio capace. E convinti finalmente anche loro, ecco l'appalto, le grane, la gara ed i ribassi, e i soldi che erano troppi  ancora, e non puoi rivedere qualcosa per risparmiare, tu che credi di fare San Pietro ma guarda che questa qua è una chiesetta di un paesino spelacchiato che non ci viene nessuno, tre vecchiette alla messa delle cinque. E poi è così in cima ad una collina che ogni volta che muore qualcuno è un disastro. E come se non bastasse ci si è messo anche il collega della sicurezza con tutti i suoi patemi sul lavorare a quelle altezze con un trabattello solo, dove due non ci stanno, a meno di spostar le panche e fare le celebrazioni on the road. E allora ho portato il mio imbrago da arrampicata ed una corda, in maniera che, almeno quando lui va in cantiere, gli omini che si arrampicano per mettere le luci su quel cornicione un pò sbilenco sono lì, in posa per lui, a far le belle statuine, tutti sorridenti e agganciati. Forse ha capito di essere stato un pò preso per il culo.
E quest'oggi, dopo tutte le parole e le grane ed i dubbi, quando d'incanto la volta ha iniziato a prender vita e colore e a spandere di rimando luce sulle pareti abbassandosi fino a delineare panche, marmi, stucchi e il pavimento, le cappelle laterali e l'altare e perfino quell'ambone del cacchio abbandonavano il loro aspetto tetro e quasi stantio, acquisendo volumi nuovi, l'espressione si stupore del parroco mi ha fatto sorridere. "Ma era proprio così che l'avevi pensata?" mi ha detto poi, ancora con gli occhi sgranati; Io l'ho guardato, gli ho sorriso e di rimando gli ho risposto: "non so, sai, in realtà credevo di fare San Pietro..." 
E poi allora via. 
Via di corsa, che colui al quale non si può dire di no ha parlato, all'attacco della via alla tal ora, e sei già in ritardo, e gli mandi un SMS di conferma - ok, capo - il tempo brucia i minuti del conto alla rovescia ma ti devi fare ancora una breve tappa in studio, che rinvii e moschettoni sono rimasti lì. Ma da lì non si può entrare ed uscire come si vuole, che ci sono le telefonate e le mail del pomeriggio da smaltire, e vedere cosa è stato fatto e cosa no, e puoi mica permetterti di prenderti un mezzo pomeriggio come credi, anzi, chi credi di essere qui, forse il capo?
Mezz'ora dopo però, la parete è di fronte a me. 
Una via facile, una ferrata d'allenamento, c'è chi la percorre addirittura senza legarsi, quasi correndo. Sono arrivato fin qui veloce, forse un pò troppo, come sempre. Ma nessuna sirena in lontananza, dovrebbe essermi andata pulita anche questa volta.  Renè non c'è ancora. Quasi meglio, con lui ho un'ottima intesa, ma il privilegio arrampicare da soli è una cosa che capita di rado. Me lo prendo tutto e via allora, rapidamente mi cambio e mi preparo, lo sbuffo bianco della magnesite che si disperde mentre premo le palme l'una contro l'altra, l'imbrago è stretto, i rinvii  tintinnano rassicuranti, una musica sottile nelle orecchie, ho scoperto da poco che preferisco arrampicare così, che mi rilassa e mi distende. 
Ed inizio lento e misurato, saggiando con le dita gli appigli facili, puntando coi piedi, salendo tranquillo. La sicurezza della corda fissa in alcuni tratti è perfino ridicola ed eccessiva e ci rinuncio, sto bene, me la godo, sono qui, io, solo, una montagna di fronte, il vento fresco non arroventato dal sole, la via che si srotola, passaggio dopo passaggio, appiglio dopo appiglio, le mani trovano rapidamente la soluzione nei passaggi leggermente più impegnativi. 
Ad una cinquantina di metri da terra, dal sottofondo musicale emerge la voce di Renè, è arrivato, sono arrivati. Gli grido di sbrigarsi e di raggiungermi, nel frattempo scatto qualche foto e vado avanti. Mi raggiungono in fretta e proseguiamo insieme, si parla e si scherza. Rapidamente ci alziamo di quota, la visuale cambia, lo sguardo si allarga, le nostre auto rimpicciolite, la mia città alla mia destra, le mie montagne a sinistra. 
La via si interrompe, riprende, si interrompe di nuovo, dall'alto  l'imponente mole della Sagra ci vede salire impassibile, con le sue rovine, i suoi contrafforti maestosi.
Ma dov'eri prima - mi chiede Renè, mentre saliamo. In chiesa, gli rispondo, mi guarda e ride - Tu? In una chiesa? Hai deciso di farti prete? Il diavolo e l'acquasanta? Battuta già fatta, casomai il contrario - gli rispondo. Acquasanta la mattina, in chiesa, e diavolo il pomeriggio, in parete.
Arrampichiamo, si ride, si sta sereni, l'arrampicata è bella per quello perché è uno sport libero e di testa, perché ci vuole testa a ragionare e convincere l'istinto che si sbaglia, che camminare su una cengia a strapiombo è uguale a farlo su di un marciapiede, che la corda e chi la tiene in mano sono la tua fiducia ben riposta, che il rischio c'è ma è ampiamente calcolato, è un briciolo di adrenalina che dà più sapore alle cose. Ed uno sport di testa che la libera e la rischiara, rasserena, ti rende conscio delle tue capacità, capace di guardare lontano, ti fa durare il doppio il tempo, assaporandolo, gustandolo. I movimenti sono diversi, delicati e di equilibrio alcuni, di forza altri. Quasi sensuali, i primi, prepotenti gli ultimi.
Una telefonata, anticipata dall'allarme collisione U-boot, interrompe i nostri dialoghi, è la consorte, non ti sarai mica dimenticato della cena di questa sera, alle otto puntuale, ecco che cos'era il campanello, ma figurati, certo che me ne sono dimenticato, anzi forse lo sapevo, ed è proprio per quello che adesso sono qui, comunque adesso vedo, non ti preoccupare, sì, no che non sono in studio, cioè, non sto proprio, esattamente, come dire, lavorando, questo rumore metallico come di moschettoni... Sì, ma anche se non alzi la voce va bene uguale, che quando uno arrampica ha bisogno di concentrazione e se mi fai cadere mi avrai sulla coscienza ed io, previdente, non ho rinnovato apposta l'assicurazione sulla vita. Comunque arrivo, tranquilla, otto otto e mezza massimo, dopo gli aperitivi e, vedrai, non se ne accorgerà nessuno. 
Lo sai che siamo a metà parete, sono le sette e poi dovremo farci tutto il ritorno a piedi e prima delle dieci non arriveremo, vero? mi chiede Renè.
Certo che lo so, rispondo con un largo sorriso.
Non so dove sia finita l'acquasanta - mi fa lui - ma il diavolo mi sta arrampicando di fianco -
Sì, ma è un buon diavolo, dopotutto - rispondo io.
Arriverò alla cena alle 22.30.

venerdì 10 agosto 2012

I'm not Waterproof


Ovvero la fine di un mito.
E non so se potrò riprendermi dallo choc.
La tragedia si è consumata ieri. Primissimo pomeriggio. Con la scusa di dare un'occhiata ad un cantiere mi sono concesso un discreto giro in moto, principalmente per festeggiare il ritorno alla strada della mia splendida, rigidamente trattenuta sul cavalletto da noiose pastoie burocratiche dovute alla mancanza di un'assicurazione, senza la quale, pare, non si possa mettere nemmeno la ruota anteriore fuori dall'uscio dello studio delle rose, sua residenza ufficiale (l'ho dovuta spostare qui perché giù, a Bucodiculoplace, mi si immalinconiva). Google prevedeva pioggia, ma sappiamo benissimo tutti che ogni tanto Google mette pioggia apposta per andarci loro nei posti dove ci si vorrebbe andare anche noi, così loro non trovano traffico. E così me ne infischio e parto. Parto ritrovando, non appena uscito dalla mia regolarissima ma caotica città, quella semplice felicità fatta di curve e controcurve, di pieghe disegnate con il compasso e di paesaggi che cambiano, una mietitrebbia e covoni a perdita d'occhio, filari di vigne ordinatissimi su colline dai colori dorati, con cascine simili a fortezze arroccate sulle sommità. Parto ritrovando nel quieto brontolio del motore una voce amichevole, che mi dice ma sei qui, è da tanto che non ci perdiamo insieme, ed avevi la stessa voglia di essere qui che avevo io. All'orizzonte gonfie nuvole scure si ammassano le une sulle altre e sembrano giocare con me, ma si spostano al mio avvicinarsi facendosi rispettose di lato e me le lascio alle spalle, non troppo distanti. La moto, a volte, è una partentesi di egoismo assoluto, non c'è nessuno, non ci sono i telefoni, non c'è lo studio, si congelano le grane, si accantonano le urgenze e le pretese, non c'è neppure la consorte e le sue irose pretese. Per contro non c'è neanche la Ciccia, ma se metto la mano sullo stomaco mi sembra di metterla sopra la sua, esattamente dove la trovo quando faccio lo stesso gesto e lei è seduta alle mie spalle, e  gli occhi sorridenti sotto il casco di Valentino Rossi  mi guardano dal cerchio dello specchietto. 
Un giro come ogni tanto mi va di fare, che non ti serve altro, ad accarezzare la manopola del gas, le marce non troppo tirate, l'aria fresca che ti entra nel casco e ti accarezza di profumi lontani attraverso la visiera aperta, né troppo veloce né troppo lento, il giusto, con la calma per apprezzare le cose fatte bene.
Un'oretta scarsa di guida, oltre la collina della nostra città e lontano da tutto. 
Arrivo in cantiere che sorrido. La riunione scorre tranquilla, i problemi che si risolvono, sembrano nodi che si sciolgono in fretta. Ci salutiamo e riparto, pregustandomi un'altra oretta da lazzarone.
Ma le nuvole hanno un'altra idea. Loro che si erano allargate accondiscendential mio passaggio, a mia insaputa si sono poi raggruppate, accalcandosi e fissandomi corrucciate mentre mi allontanavo. E Sono rimaste lì, a gonfiarsi ed a rimestarsi, le une sulle altre, nere ed arruffate. E me le ritrovo di fronte. Il vento mi arriva a folate improvvise, mi schiaffeggia di foglie addosso e piega con forza i rami degli alberi ai lati della strada. Forse ce la faccio a tornare indietro prima che si scateni un nubifragio, mi vien da pensare, e do gas. Se riesco a forzare lo sbarramento, probabilmente arrivo in studio indenne.
Passo da un versante all'altro della collina su Torino imboccando una galleria. 
Il chiarore che mi arriva incontro nel buio è lucido ed abbacinante. Piove, ma non così tanto da farmi tornare indietro a trovare rifugio. Sono sempre dell'idea che posso scamparmela.
Ed inizio la discesa, i tornanti questa volta li percorro con attenzione, l'asfalto è lucido ed infìdo. 
Le mie scarpe sono le prime a riempirsi d'acqua, tirata su più dalla ruota anteriore che dalla pioggia. Poi tocca ai jeans, raccogliendo quello che mi cola dal giubbotto e dal sellino. E la pioggia aumenta. Mi rendo conto ad un certo punto che non ho scampo, non ho un posto dove ripararmi, è tardi anche per tornare indietro, le nuvole mi tagliano la strada anche verso la collina, il cielo ne è coperto, sono nervose, grigie scure e nere, ingobbite, tumultuose. Sospiro e penso che, per fortuna, ho il mio casco ed un giubbotto Dainese fighissimo, nero e giallo (o arancione, o perchè diavolo mi incespico sui colori se sono daltonico?) che mi è costato un rene ma che è antipioggia, antivento ed antitutto.
Arrivo in città che un diluvio così l'ha visto solo quella volta là che c'era quel signore con la barba che costruita una barca cicciarda e dietro tutta una fila di coppie di animali che gli dicevano sbrigatidaisbrigati.
L'acqua mi arriva non solo da sopra e da sotto, ma anche da destra e sinistra. Secchiate d'acqua dalle macchine in senso opposto, dalle grondaie piene, dagli alberi zuppi. Diretta e di rimbalzo, dalle folate rabbiose di vento che minacciano di farmi perdere l'equilibrio, dai tombini intasati che fan diventare le strade un guado. In alcuni punti il piede per terra scompare in venti centimetri d'acqua scura e limacciosa. Oramai fermarsi è inutile, tanto vale proseguire. L'acqua riesce a trovare una via anche attraverso il casco, mi cola sul naso, entra nel collo. Attraverso il ponte sul Po, il fiume è un tumulto, i Murazzi coperti, qualche tavolino fila via veloce nella corrente. E continua a venirne giù, a scrosci improvvisi, in alto vedi qualche strappo di chiaro ma le nuvole se ne accorgono in fretta e corrono a ricucirlo. 
Attraverso una via che sembra un lago una macchina che la percorre in senso opposto e che sembra un motoscafo, incrociandomi non può evitare di lavarmi completamente; ho la mesta consapevolezza che Dainese è la marca di un giubbotto da moto e non di una muta da sub, sono fradicio anche sotto, dentro, l'acqua entra e mi mi esce sgocciolando dalle scarpe e dai guanti che strizzo tristemente ai semafori.

Arrivo in studio ed entro nel giardino, che è un putiferio di pigne cadute e foglie macerate. Appoggio la moto e scendo. 
Ho il passo da palombaro e lascio una scia di orme sgocciolanti. Le scarpe emettono quel sgneec sgneec ad ogni passo. Da dietro ai vetri, le mie carogne sghignazzano, divertite.

Per fortuna ho la mia roba per correre, i ricambi, una tuta, un asciugamano, un paio di scarpe asciutte. Non ho un lembo di indumento che non sia da strizzare, sono completamente fradicio. Mi cambio e finisco la giornata con la tuta della Gore, i capelli lunghi spioventi e umidi, ricevendo anche un rappresentante con estrema naturalezza, come se fosse assolutamente normale vestirmi così al pomeriggio. Prima di uscire si è girato un'ultima volta e mi ha rivolto una occhiata in tralice, scuotendo leggermente la testa. Deve aver pensato che alcuni ingegneri sono veramente, veramente strani.
Ma la tragedia, quella vera, compare in tutta la sua drammaticità, mentre faccio l'inventario delle tasche. 
Il verbale di cantiere è una poltiglia masticata e irrecuperabile, il portafogli è un ammasso molliccio, gonfio ed appicicaticcio, il telecomando del cancello elettrico invece del consueto bipbipbip emette un rauco blooorpbloorp da famiglia Adams che la sera stessa farà molto ridere la mia Ciccia. 
Ma quando tiro fuori il cellulare mi raggelo. Il display è acceso, ha una strana luminescenza azzurrognola ma non compare niente. Non un numero, non un nome. Niente. Funziona, sì, riceve e trasmette, ma la rubrica - ovviamente non uso quella della SIM - è irraggiungibile, perduta per sempre nel mare dei cristalli liquidi in corto. 
Per dirla proprio tutta, devo però confessare che il mio cellulare, più che un avanzato prodigio della tecnologia, era un avanzo fatto e finito, estremamente datato, oserei dire: addirittura le malelingue di studio han sempre sostenuto che andasse ancora a transistor e che Meucci e Bell possedessero il modello immediatamente sucessivo, e c'è addirittura chi ha visto nel nubifragio, che ha posto fine alla sua lunga e gloriosa esistenza, un atto di misericordia divina. 
E sì che avevo anche provato a modernizzarmi, ma ero sempre tornato indietro. Magari non faceva le foto, non aveva display colorati e suonerie polifoniche, non spediva e-mail, non mandava cinguettii ai passerotti di passaggio, ma per Edison, le telefonate le sapeva fare eccome. Aveva una tastiera comodissima, la batteria durava giornate intere ed prendeva la linea persino nelle catacombe, gettando nello sconforto gli azzimati e griffatissimi colleghi con la evve moscia e il melafonino d'ordinanza, che ogni tanto mi capita di incrociare. Rigato, malandato, aveva resistito stoicamente a cadute da più di un ponteggio. 
Mi dispiaceva sinceramente disfarmene. Ho provato giuro, ad usarlo da non vedente - freccia verso il basso per la rubrica, tre volte   il 2 per la lettera c - e via di questo passo, e il più delle volte azzeccavo la persona da chiamare. Così facendo ho anche telefonato a persone che non sentivo da tempo, e questo tutto sommato non è stato nemmeno malaccio. Vabbè, con gli SMS ho mandato solo insulti in sanscrito, ma non capendo il sanscrito non si è offeso nessuno. 
Ma ad un certo punto ho dovuto desistere. 
Ed ci sono cascato: Sono stato conquistato anch'io da uno di quegli oggetti. No, quello là giammai, troppo glamour, per uno come me. Più discreto, non un padellone ingombrante, ma nuovissimo, lucidissimo, avanzatissimo, completissimo e velocissimo: macchina fotografica, internet, navigatore, antiautovelox (che sì che serve eccome), bussola, Wifi, computer per correre (ne parlerò), un'infinità di giochi per la Ciccia e, giuro, anche armonica a bocca. 
Ti cerca le cose in Internet, le traduce nella lingua voluta, fa i conti più complicati, trova i nomi delle stelle in cielo e, come dice la pubblicità, per ogni cosa c'è un app. 
Insomma fa tutto lui, infatti qualche volta fa di testa propria, manda messaggi doppi, si rifiuta di  chiamare chi gli sta sui chip, parte il riconoscimento vocale mentre alzo la voce con un socio e "L'utente noncapisciuncazzo non risulta presente nella vostra rubrica, aggiungi?". 
E con tutte queste qualità e tutte le cose che fa, è ovvio, non fai in tempo a girarti che già si lamenta perché alle otto e un quarto del mattino è già a corto di batteria, ma in fin dei conti questi sono solo piccoli dettagli, facilmente risolvibili con una prolunga da 8 km per i miei giri al parco.
Però lui, l'altro, quello randagio, lui che mi ha accompagnato per così tanti anni, con la sua plastica grigia una volta lucente ed ormai tutta scalfita e rovinata, che mi ha ustionato l'orecchio in telefonate lunghissime che mi scaldavano il cuore, non l'ho certo mica buttato via, cosa credete. E di là, sul davanzale della finestra che si gode la sua meritata vacanza. Riposa, osserva sornione le rose crescere, ride delle baruffe  chiassose dei passerotti. Ogni tanto lo metto in carica, e lo accarezzo distratto. 

Voi non ditegli niente, Ma su Ebay, un display nuovo, originale e imballato, mi costa 25 Euro, spedizione gratuita....

P.S. Questo post in realtà era stato messo giù per tre quarti ormai un anno fa. L'ho ritrovato tra le mille bozze che attendono pazientemente, l'ho finito e pubblicato. Il vecchio telefono è sempre là, sul davanzale. Ed Il display è ancora su Ebay. La prossima settimana lo ordino.

venerdì 3 agosto 2012

Era mio padre


Era questo mi girava nella testa da un po', quando ho raccontato di aver il prurito da post. La voglia di parlare un pò di lui, del mio grande. Ma avevo bisogno di cose e di tempo,  di lasciar andar le dita a metter giù parole, senza far ordine, e non è facile. 
Già, non so se scrivere di lui sia per me facile, così come non mi è mai stato semplice ogni confronto, ogni sguardo nel profondo dei suoi occhi, o qualsiasi lembo del nostro tempo insieme: con tutta probabilità ne verrà fuori un'accozzaglia confusa e contorta, poco organizzata, un poco caotica, buttata giù come mi verrà. Siate clementi, sarò quasi sicuramente eccessivamente prolisso ma non è per voi che scrivo, è per me come quasi sempre ma stavolta non solo, anche se chi vorrei davanti a queste righe non può più sentirle, presumo. Per cui non leggete che è meglio, è giusto che sia solamente io, a sprecare del tempo. E non vorrei esser travisato, non voglio certo con questo incuriosire  spingere invece alla lettura. 

Quella parte marina cucita sottopelle, quella cadenza altalenante che mi ritrova puntuale quando incrocio quel mare di lì mi arriva da lui, partito da un piccolo paesino - quel paesino - della Riviera Ligure con un diploma di geometra in tasca e che a diciott'anni aveva trovato il suo primo impiego in un'impresa di costruzioni, qui a Torino. Il suo colloquio di lavoro l'aveva fatto con uno dei due titolari che, prendendolo in prova, gli aveva detto: "Le spiego la sua posizione all'interno della nostra azienda: Lo vede questo cane? E' la nostra mascotte, ha fatto la resistenza. Bene, la sua figura si colloca proprio proprio lì. Davanti a lei ha tutti quanti, a partire da me fino all'ultimo apprendista stuccatore, e dietro solo il cane. Però c'è un vantaggio. Le assicuro che non avrà alcuna limitazione, nessun ostacolo nella salita, se ne avrà voglia e capacità". 
Mio padre, che odiava quel pulcioso bastardo che allora attentava alle sue caviglie, ha abbandonato in fretta il suo compagno in graduatoria ed ha risalito uno alla volta tutti i gradini, fino a diventarne il Direttore Generale, di quell'impresa. E gli ha dedicato la sua vita, i suoi giorni più intensi, buttando l'anima in un lavoro in cui credeva senza riserve, assimilando e affinando le capacità, dimenticando orari e festività, imparando a gestire uomini e cantieri sempre più importanti, contribuendo ad aumentare le potenzialità di quell'azienda, meritandosi sempre la stima e la considerazione di tutti, e trattando con lo stesso rispetto ogni persona, sempre, dall'ultimo dei carpentieri al personaggio pubblico più in vista. Sacrificando la famiglia? Forse. Forse una parte, forse gli affetti se non sono coltivati e innaffiati dalla vicinanza e da altrettanta dedizione, con il tempo si allentano. 
In ufficio, alle spalle della sua scrivania, tra foto di gru altissime e monumentali armature strutturali, campeggiava un quadretto con una scritta: "Siete qui per aiutarci a risolvere un problema o voi SIETE il problema?" Così, giusto per mettere a proprio agio l'interlocutore. 

Non ho ricordi d'infanzia di noi due insieme. So che c'era, che c'è sempre stato, ma il compito di farci crescere ed educarci è sempre toccato a mia madre, donna energica e di grande carattere. Lui è sempre stato "Il Generale" della nostra famiglia, quello delle decisioni importanti ed indiscutibili, delle punizioni sopra le righe, quando servivano - e nel mio caso servivano spesso, della nostra viva (quasi sempre la "mia") preoccupazione quando veniva pronunciata la classica frase "questa sera lo dico a papà". 
Sicuramente sarà capitato che mi sia seduto sulle sue ginocchia da piccolo, avremo certamente giocato insieme a pallone al parco la domenica, o ci saremmo abbracciati un sacco di volte ed io avrò sentito la sua barba pungermi e quel suo odore, di tabacco e dopobarba, ma non ne ho più tracce nella memoria: e so che, forse con una lenta trasformazione, non potrei dire quando, parlare con lui si è tramutato in un processo ostico e faticoso, e di lì in avanti per me è diventato improponibile confidarmi e per lui sforzarsi di capirmi. Stupidamente ci siamo accontentati delle nostre strade, affiancate ma distinte, e così è che ad un certo momento delle nostre vite quel magico ed unico rapporto che esiste da sempre tra un padre ed un figlio si è incrinato, assottigliato, anche se forse mai completamente spento. E non abbiamo fatto caso alla spinta leggera che ci ha fatto allontanare, lentamente ed inesorabilmente.

"I figli di grandi uomini non saranno mai uomini così grandi" è stato uno uno di quei luoghi comuni che mi han sempre perseguitato. Perché io, un grande uomo come padre ce l'ho avuto. Ne ho sempre scherzato, vedi Bruto che fine ha fatto fare al patrigno, vedi Mastro Geppetto e Pinocchio, vedi che anche Fillippo II di Macedonia  è stato un sovrano coi controcoglioni ma Alessandro Magno lo è stato di più, e che dire di Pipino il Breve e Carlo Magno, ma pare che per la legge dei grandi numeri, con le opportune eccezioni, la ragione stia da quella parte: In ogni dinastia che si rispetti, subito dopo un gigante, almeno la generazione successiva fa miseramente cilecca. 

E che mio padre sia stato sicuramente un grande uomo è un fatto. E questo non lo dico io con l'affetto sfrontato da figlio che può travisare la realtà, me lo dicono ancora adesso, a tanti anni di distanza dalla sua scomparsa, le persone che incontro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e chi ha lavorato con lui e mi onorano ancora dei loro ricordi, di aneddoti con lui protagonista, di storie di cantieri impossibili. Che non fosse uno comune lo leggevi in quello sguardo, puro e deciso: spiccatamente intelligente, onesto e con dei princìpi morali saldi, senza un tentennamento e che mi ha inculcato, sia stato io volente o nolente. Vibrava di energia in ogni cosa che faceva, era sempre attento e giusto nei giudizi, ponderati, mai avventati. Dalla vita e da suo padre sottufficiale di marina - un'esistenza spesa in giro per il mondo - era stato abituato a non essere un padre particolarmente affettuoso, almeno non con me, il suo unico figlio maschio, la sua speranza, il suo futuro.
Per me allora, di lì a sentire il peso di cotanto padre e pensar di trovarsi nel salto generazionale sbagliato, il passo è stato breve. Perché è facile sbandarsi, quando magari hai solo quindici anni e non sai neppure cosa immaginare di fare nella tua vita, e lo è quando ogni direzione è una strada nebbiosa, quando ogni tua briciola di energia buttata in un'idea o passione si spegneva in un attimo, sotto il suo giudizio. E anche se ti senti il figlio sbagliato di fronte a lui e le sue speranze, se il confronto con le sue aspettative ti vede perdente sempre, arriva il momento in cui qualcosa ti cambia di dentro ed il confronto diventa una guerra, per la voglia di emergere, di controbattere alle derisioni, per dimostrare che. E nel frattempo cresci, e anche se non te ne accorgi, la tua strada, la tua vita, il tuo futuro incominciano a delinearsi, a trovare forma e respiro. Non è facile, fa rabbia, fa male, e lui con la sua solida concretezza è sempre un passo avanti, e i suoi giudizi sono sempre feroci, lame di rasoio, palle infuocate che cadono proprio dove sanno che bruciano meglio. 
E quanto mi è bruciato, all'inizio della mia professione, il più delle volte essere identificato come "il figlio del geom. D&R". 
Non è stato facile per me, ma ho poi imparato che è stato molto peggio per lui. Per lui che forse non sapeva bene come si abbraccia un figlio, ma che mi amava - perché un padre non può non amare suo figlio, semplicemente non può perché non dipende da lui, io l'ho imparato su me stesso - che ha visto che era la mia strada che si allontanava, ma che ha continuato a far finta di niente perché era giusto così, perché sapeva, conoscendomi, che solo contrastandomi, anziché consigliarmi ed appoggiarmi, probabilmente avrebbe ottenuto il meglio da me. 
E non so se ci sia riuscito, sinceramente no, almeno non completamente. Forse non tutte le sue aspettative le ho raggiunte, ma so che negli ultimi anni, osservando il mio impegno, era orgoglioso di me. E so che la prima volta che, molti anni dopo qualcuno al quale era stato presentato, sentendo pronunciare il nostro cognome gli aveva domandato se per caso lui era il padre dell'ing. D&R, sul suo volto si è aperto un sorriso grande così. Ed è lo stesso sorriso che illumina me, senza riserve, di un affetto sconfinato, le rare volte che accade ancora il contrario. 
Mio padre ha vissuto una vita vincendo. Affrontando e vincendo, tranne una volta, molti anni dopo, quando ormai io mi ero trasferito a Bucodiculoplace, e l'ingresso in scena della mia Ciccia aveva contribuito a riavvicinarsi. Con lei si era come leggermente addolcito, e le riservava attenzioni che non credevo nemmeno potesse avere. Avevano un rapporto intenso e delicato. 
Quando gli è stata diagnosticata quella malattia bastarda ha affrontato con piglio deciso la situazione e pianificato ogni cosa, come sempre. Gli esami, una clinica privata (vi ho fatti laureare tutti e tre per cui se devo schiattare almeno che sia in una camera da solo, immacolata, con un'infermiera possibilmente da film che mi coccoli se solo do un colpo di tosse), il chirurgo e persino l'anestesista sono passati sotto il suo occhio critico. 
Non ha pensato al dopo, non si è preoccupato che le cose non potessero andare come aveva deciso. Quindici giorni dopo l'intervento devo essere a casa, aveva detto. E così è stato. Dopo due settimane dall'intervento, la clinica firmava il suo foglio di dismissione e lui usciva, ritornando a casa.
E' morto il giorno dopo. Un'emorragia interna, imprevedibile, hanno poi sentenziato i luminari.
Il generale era caduto. Improvvisamente non c'era più quella solidità, la tranquillità di saperlo al suo posto. Aveva abbandonato il comando senza dare disposizioni, e l'esercito smarrito si è rapidamente sbandato e disperso. 
Non so quando sia successo. Non ne ricordo il giorno né il mese, vagamente l'anno, devo pensarci. So che era inverno. Non mi rimarrà mai in testa. Forse non voglio che quella data mi ci resti impressa, come se la fine, quella definitiva, non fosse mai completamente arrivata e ci sia ancora la possibilità di deviare, rimediare. E così, quelle rare volte in cui mi soffermo a guardare la foto sorridente della lapide, leggo la data e penso "ecco, è accaduto quel giorno", salvo poi dimenticarmelo subito dopo.

Perché ne scrivo?
Perché era mio padre, quell'uomo incredibile che ogni tanto ancora sogno e che mi sorride, con quel sorriso un pò stanco di chi ha combattuto tanto ma sa bene per chi.
Era mio padre, che mi ha fatto incazzare spesso, disperare qualche volta, e che ha dubitato così manifestatamente di me e delle mie capacità da far sì che io mi inventassi di tutto con tutta la rabbia che avevo addosso, per dimostrargli il contrario. E se ho raggiunto quello che ho, se riesco a stupire mia figlia con una matita in mano, se non riesco mai ad accontentarmi di me, gran parte del merito è suo.
Era mio padre, quell'uomo che non era al funerale di sua madre perché per ironia della sorte nelle stesse ore operavano mia madre al cuore e "In questo momento mia madre non ha più bisogno di me mentre mia moglie sì" e chissà quanto questo deve essergli costato.
Era mio padre che portava mia figlia a cavallo, e che la sera restavano fuori, insieme, a guardare le stelle e a raccontarsi le storie, ed era così bello, vederli così.
Perché so da chi ho imparato, a guidare come un matto.
Era mio padre che mi ha insegnato a camminare, ad andare in bicicletta ed a nuotare. 
Era sempre lui, che quella volta è toccato a me insegnargli qualcosa, portato su fino in cima alla Guglia Rossa, perché a lui dal giardino di casa nostra sembrava sempre così grande. 
Era mio padre, che ho poi saputo da altri, era così orgoglioso di me da sopravvalutarmi.
Era mio padre che è stato strappato dalla sua vita e da me quando ancora non era tempo, e quando ancora avevo così bisogno di lui.
Lo avessi qui, adesso, non so cosa vorrei dirgli: forse niente, forse non sarei ancora una volta capace di parlargli senza barriere, forse invece avrei voglia di riprendermi quello che non ci siamo permessi che ci capitasse, forse gli chiederei di capirmi e farsi capire, di aspettare, che alla fine le due strade tornano ad unisrsi in una sola, sempre che non l'abbiano già fatto da tempo. O forse invece lo abbraccerei semplicemente, per annusare e ritrovare il suo odore. 

Sapete? Le mie sorelle, le rare volte in cui ci parliamo, non mancano di commentarmi acidamente che "stai diventando esattamente come lui, tu che una volta lo criticavi così tanto".
Mai nessuno oggi, potrebbe farmi un complimento migliore.