sabato 31 dicembre 2011

Lascio passare il tempo

Che altro tempo verrà, ci sarà, mi troverà.
Lascio passare il tempo assieme alle folate di vento gelido di questa mattina, che mi hanno soffiato un mal di testa subdolo che, oggi, mi ha fatto desistere dai miei consueti chilometri al parco.
Domando perdono, ieri ho guardato la posta, quella di qui di voi, dei vostri 38 commenti a cui non ho mai dato risposta, non è scortesia, credetemi, non è da me, ma il più delle volte è solo fatica. Ho scritto veramente poco quest'anno, una ventina di post, meno della metà degli altri anni.
Rileggo i miei buoni propositi di un anno fa, che li avevo espressi qui, non è che sia riuscito a far tutto quello che avevo in animo di fare, ma i desideri non hanno date di scadenza come il cartone del latte e pertanto pazienza, vorrà dire che me li terrò buoni ancora per un pò.
Lascio passare quest'anno senza rimpianti, lo abbandono a galleggiare leggero alla sua corrente come una barchetta di carta all'acqua di un fiume placido, conosco persone che non ricordano più come si piega il foglio per fare una barchetta di carta. Io sì.
Lascio passare il tempo che è stato troppo spesso fatica, rabbia, insoddisfazione ed esasperazione, ma rassegnazione mai.
Lascio passare i pensieri persi e quelli e perduti, gli sguardi che, tante volte, sono usciti da queste finestre di luce per sparpagliarsi fuori, oltre il giardino delle rose,  liberi di depositarsi dove volevano andare.
Lascio passare i momenti più bui, quelli in cui, tra le mani, non ti rimangono altro che le stesse tue mani da stringere. Ma scopri poi che non ti serve tanto di più.
Tengo solo i cristalli più puri, le parole preziose. Li tengo e li appendo fuori alla finestra e da qui li osservo dondolare, incuranti di questo freddo vento. 
Tengo  il tempo pieno di sorrisi, delle voci, delle mani, dei profumi, dei giri insieme alla mia moto, del Le ho mai raccontato del vento del nord. Tengo il tempo di tutti gli abbracci di mia figlia, che ognuno di loro è un incantesimo speciale e bellissimo, li avvolgo in un nastro rosso bello stretto, con un grande fiocco.
Tengo il tempo passato a realizzare i progetti più belli, e l'immensa soddisfazione di qualche  lavoro finito e fatto bene, con i miei, qui, il complimento di quel capomastro ("Stai tu quello delle luci? Sì stato bravo, l'hai trasformato, 'sto posto") e gli occhi gonfi di chi mi ha detto no, io non voglio ancora andarmene da qui.
Tengo i miei capelli arruffati, più lunghi ancora ed i miei cinquecento e passa chilometri fatti correndo, le mie scarpe un'altra volta da buttare. Il tempo fermato dal mio cronometro ed i traguardi sotto cui sono passato, so che posso cercarne ancora degli altri.
Tengo i momenti in cui mi rigiro tra le mani un neckwarmer che non ho cuore di farmi lavare ed una penna che scrive benissimo.
Tengo il tempo osservando il tavolo riunioni imbandito per il pranzo di Natale, fatto qui tra di noi, dove quasi tutti han dato qualcosa, ed è stato caldo e speciale. E tengo la consueta bottiglia di champagne, quest'anno una  scelta particolare, di una piccola, ma grandissima, cave.
Tengo il tempo di uno sguardo, quello sguardo che comunque solo io so.
Tengo il tempo in cui ho osservato il mare fin quasi a farmi bruciare gli occhi.
Tengo il tempo delle lacrime e delle risate e dell'ostinazione che vince.
Tengo il tempo di un viaggio in macchina con una mucca di peluche come passeggero, che a momenti ci dovevo metter la cintura, per portarmela a casa. Quello passato a carezzare un portapenne argentato fatto con il cartone della carta igienica ed una clips gigante con un ippopotamo, un diamante purissssimo in un tappo di plastica ed una pietra blu, una bussola ad indicarmi verso quale direzione guardare ed una biro, che mi ricorda che sono comunque un orso.
Tengo il tempo immaginario di un bellissimo viaggio a Disneyworld, e il sorriso di un amico che sboccia adesso, proprio adesso mentre legge, dov'è la distinzione tra il virtuale ed il reale, dimmi.
E tengo il tempo che unisco con voi, tutti voi che ogni tanto, passate ancora di qui. E se allora guardo bene, scopro che il tempo che lascio andar via senza rimpianti, quello oscuro e opprimente, quello è stato, in fondo, pochissimo. 

Auguri per altro buon tempo.

giovedì 15 dicembre 2011

Leggero

Eh sì, che ci manco da parecchio, da qui, da questi posti, da chi leggo e da chi mi legge, da queste silenziose stanze bianche con muri tappezzati di parole leggere. E sì, che sono stanco, spento, staccato o, meglio, è così che mi sento quando i sogni si spengono, le cose cambiano e non posso far niente per evitarlo, o forse solamente non sono in grado di farlo. E sì che tutto è difficile. Difficile, complicato, rugginoso, a volte cattivo. Triste, ogni tanto, come in giorni come questi, che in quella casa, giù a bucodiculoplace, la mia ciccia passerà un Natale con una nonna in meno, e comincerà ad essere inesorabilmente sempre un pò meno Natale, quel Natale con la N maiuscola e gli sberluccichii e la neve e la letterina, meno magia e niente neve quest'anno, io ai miei compagni di classe gli dico chenoncicredomica, a Babbo Natale, che sennò quelli mi pigliano in giro mi ha detto ieri con gli occhi che supplicano conferme. Povera piccola, il mio donnino di undici anni in un corpicino che è diventato di colpo grande ed ingombrante per la sua età, lei che guarda sua mamma che piange mentre l'abbraccia e che capisce e pensa le sue stesse cose, lei e le sue paure e le sue insicurezze ed i suoi brufoli in fronte che vuol dire che è cambiata e non ci si può mica far niente e che lo so e lo vedo, a volte vorrebbe tornare indietro e starmi raggomitolata in una mano ed addormentarsi lì come faceva fino a poco tempo fa con quelle labbra dischiuse in un sorriso di chi si sente amato e non desidera altro, che la mangeresti piano di baci soffici e lievi, così, per non svegliarla, ed adesso sembra che non possa più, che non si possa far i matti a saltare le pozzanghere a piedi uniti, che non sia più possibile farci la doccia insieme, che non sta bene, non si può, non si deve. Povera piccola, lei ed il passaggio rude alla prima media, e la sequela di voti che sembrano le medie stagionali di San Pietroburgo in inverno. Ma poi, anche se ogni tanto devo fare il padre severo e lanciare qualche urlo ogni tanto cosa che ODIO, siamo sempre lì, pronti a passarci un pomeriggio insieme a entrare in tutti i negozi del centro, a mangiare schifezze e toccare tutte le palline in vendita di tutti gli alberi di natale per cercarne una che sia quella, quella dell'anno, solo per noi.
Corro, sì, per fortuna, almeno quello, sono ancora una volta volta passato sotto un gonfiabile blu contro un cielo primaverile di altro traguardo, 5.05 di media e Renè al mio fianco ad incitarmi, senza infamia e senza lode ma ci sono, ritornare a muover le gambe è ancora una volta maledettamente più difficile ma si fa, non si pensa e si va, non si ascolta il battito del cuore e si guarda lontano. Ma quel cielo sereno più dei miei pensieri era lì ad aspettarmi come sempre, con lo speaker che scandiva il mio numero, 1414, e rallentare il passo e spegnere il cronometro è stato ancora una volta semplice e bello.
"Smettere di  scrivere è come prendere un vizio", dice Lei, che è brava a scrivere parole che graffiano anche quando bene non sta, come adesso. Non è vero, sai. Il vizio è di voler vivere. Smettere di scrivere è facile, perchè a volte è meglio proteggersi un poco, è meglio fermarsi per impedirsi di capire come stai, io benegrazieetu?, ma io no che non sto bene, ma a buttare giù tutto, a lasciar andare le dita leggere forse hai paura di non riuscire a fermarti e di farle andare fino a prosciugarti e rimanere vuoto dentro. Ed allora ti fermi e fai altro, ti fermi ed il tempo passa comunque, ti fermi e non pensi, non dici, non fai. Lasci andare. Iobenegrazieetu.

Ma adesso lasciatemi perdere. Perdere in queste note che da due giorni girano senza sosta nelle mie orecchie mentre corro, in questa leggera armonia di suoni e magia, in questa ballata che sa di un leggera malinconia al fondo di un sorriso, così, poco poco, leggero leggero.

Addio, Enza.

giovedì 3 novembre 2011

Terzo giorno

Di passi nuovamente buttati sull'asfalto. Battito medio 142, massimo 185. 6 km, lunghi da morire. Eccomi qui. Alle spalle l'ultima frattura, la schiena ed i mille cazzi, le litigate, le cose. Forse proprio tutto alle spalle no, ma non mi lascio smontare, non me lo posso permettere. Posso dire, tutto sommato, di averne passate di peggio. 
Oggi, per fortuna veniva giù quella pioggia sottile, leggera e rinfrescante. Faceva un freddo discreto e c'era pochissima gente, oltre a me ed i miei pensieri di questi giorni, così neri, più neri dei tronchi rugosi degli alberi, più neri delle venticinque panchine in infilata - le ho contate - nel tratto che costeggia il palazzetto, più neri di questo asfalto lucido che sta sparendo piano sotto cumuli di foglie.
Quei quattro gatti che giravano mi han sorpassato tutti. Giovani, vecchi, maschi femmine, allenati e non. Tutti.
Per fortuna non mi ha sputato addosso nessuno.
Tutto sommato poteva andare peggio.

lunedì 31 ottobre 2011

Ci sono

e sto così.
Come una panchina in una giornata di pioggia.
Con qualche foglia stanca appiccicata addosso.
Oggi ho ripreso a correre. 58 giorni dall'ultima volta.

Passerà, comunque. Deve passare.
Per forza.

giovedì 6 ottobre 2011

Stay

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

And Think Different.
Ever.

lunedì 5 settembre 2011

Quando capita

Lo sai com'è, come succede, come va. Lo vedi e ne riconosci i segni nel leggero smarrimento degli occhi che vagano a lungo abbracciando lo studio, nei passaggi dei polpastrelli sui tavoli, leggere carezze  di chi ad un certo punto decide che è ora di provare a percorrere nuovi sentieri.
Ormai lo sai, l'hai passato altre volte. Tante, in effetti. Questo qui è un porto di mare, la gente passa, pochi si fermano veramente a lungo. Alcuni, ritornano. In quasi vent'anni (....!), dal giorno in cui abbiamo messo su due cavalletti ed un piano traballante di legno il primo pc, ad arrivare ad oggi, le persone che hanno incrociato questa strada che sa di noi e di loro sono state veramente tante. Ma non è difficile ricordarli tutti, andando indietro a percorrere i ricordi che il tempo che ci ha visti insieme ha lasciato. Ognuno, oltre alle proprie impronte su quel tavolo, ha depositato ben altro. Ha posato un velo di risate, costruzioni di parole, idee, emozioni. Qualche urlo a volte, ci sta. Ha lasciato un pezzetino della propria vita intrufolato chiuso nei faldoni dei progetti consegnati, un angolino di sè che ogni tanto, lieve, riemerge, in una directory o in una immagine scattata a caso, nelle cose che qui abbiamo sempre fatto insieme. 
Lo sai come va. Non ti emoziona più. Ed è strano, perchè tu sai come sei, e non è sempre come gli altri credono. Lo sai e sai anche che al momento del brindisi di commiato, le parole giuste, eccessivamente malinconiche da un pò di tempo in qua, le tirerà fuori il tuo socio anziano, quello con gli occhi da bracco che ultimamente tiene un pò troppe lacrime in saccoccia. Mentre l'altro probabilmente non avrà occhi che per lo spumante rimasto in fondo alla bottiglia. Ed allora tu, noncurante, ti alzerai e la vuoterai, offrendo gli ultimi due bicchieri a chi sta per andar via ed al socio che ha ancora gli occhi umidi.
Porti lo stesso nome della mia Ciccia. E non sai ancora, tu. Tu che stai per incominciare una nuova avventura ma che senti che qualcosa di questo noi ti rimarrà attaccato dentro ancora per un pò, come il sale sulla pelle nell'abbronzatura dell'estate. Perso, un poco, non sai come andrà, cosa sarà al di là di questo portone, come ti troverai in un altro traffico di un'altra mattina, cosa ti diranno e come saranno i tuoi colleghi là, tra frastuoni di aerei  e berretti verdi in fila.
Ma io però so quello che serve. So già come ti andrà e posso dirtelo. Lo so perché ti ho visto, ti ho parlato, ed un poco, quello che conta, l'ho capito di te. Lo so perché ti ho ascoltato, nelle parole, nei gesti e nel profondo di quegli occhi chiari, che han guardato comunque lontano già da subito. Ti ho ascoltato, nelle sere di quel lavoro che non voleva saperne di finire, nella tua tranquillità nello spiegare le cose che sai, nei ragionamenti insieme, anche nelle risate spensierate alla macchinetta del caffè. Hai attenzione, carattere, costanza ed orgoglio a sufficienza per non doverti preoccupare di niente. Lo so. 
E sinceramente tocca a me dirti grazie. Per quest'anno, che, come tutte le cose belle, è passato in un attimo. Per la tua voglia contagiosa e per il tuo interesse per le poche cose che avevo da insegnarti. Per l'attenzione costante, per la curiosità e per il rispetto, sempre. Perchè non ci crederai, ma ho imparato ancora una volta parecchio anch'io.
E so anche che tornerai, prima o poi. Ripasserai e vedrai le facce che conosci e volti nuovi, un pò ritrovandoti un pò non più, noi e la nostra voglia di diventar grandi, e penserai che, forse, se non lo siamo diventati fino ad ora non lo diventeremo mai. Capita sempre così. Ma ti mancheremo comunque, almeno ancora per un pò.
E di te, qui, rimarrà molto di più del nickname da digitare ogni volta sul tuo pc e che non si cambierà certo con l'arrivo di uno nuovo.

Grazie Capo, mi hai detto, stringendomi forte la mano.
E poi, sorridendo, con il tuo zaino sulla spalla ed un passo leggero, sei uscito.

venerdì 8 luglio 2011

Rivolto al sole

La luce rada e gialla che entra di taglio, accompagnata dallo sferragliare dell'apertura del basculante del garage: ogni mia giornata incomincia normalmente con un viaggio e uno sguardo rivolto all'orizzonte in una determinata direzione. Il più delle volte questa è verso il nord e ciò sta a significar lo studio come meta del giorno, il passaggio veloce sulla tangenziale e la colazione al mio bar con il cappuccino e la sfoglia deliziosa e croccante alla crema di mela, quando c'è ancora, quando non hai fatto troppo tardi tra le lenzuola. Qualche volta il muso della mia auto super rodata lo punto risolutamente verso sud, già pregustando quel mare, pronto ad annusarne appena possibile l'odore di reti e di onde e salmastro e di strida di gabbiani che affidano le ali a quel vento che sa sostenerle. Ed in quei giorni, per incasinato che sia ciò che andrò a fare sarà comunque sempre quasi vacanza e mi porterò indietro rumori dell'infrangersi di onde e sorrisi che sarà difficile poi, spegnere. Raramente mi dirigo ad ovest, che di solito vuol vuol dir montagne e odor di resina di pino ed aria fredda che rinfresca la pelle e scompiglia i capelli, qualche arrampicata di nascosto a recuperare serenità tra le pieghe della roccia che l'ingegnere oggi guardi mi dispiace ma non è proprio raggiungibile o diretto alla mia casa di lassù, al fondo della valle, quella casa  che ha visto così tanta della mia vita e di quelli che amo e che sta diventando malinconicamente e lentamente un pò meno mia.
Quelli verso Est però, la mattina prestissimo, son di sicuro i più belli.
Portano con sè il ricordo flebile dell'ultimo buio che scolorisce sottile sottile, impercettibile, delle sagome scure degli alberi delineate su sfondi di brume grigie, che diventano sempre meno indistinte.
Profumano di cornetti caldi, della focaccia con lo zucchero e risuonano del tintinnare dei cucchiaini nelle tazze dei primi caffè.

Ti sorprendi, osservando un gregge di pecore che riposano ammonticchiate placidamente su un prato ancora in ombra a due passi da quell'asfalto su cui passi veloce, sempre troppo, ma nel silenzio della notte che ormai sta diventando quasi mattino in cui molti dormono si può ancora ed allora tu schiacci il piede e corri. Corri perchè correre fa parte di te, e ti piace e respiri e se non corri soffri e patisci, come ogni tanto ti capita e diventi ombroso e allora piuttosto corri forte, più forte ancora, incontro al sole ed a ciò che vuoi, che siano anche solo i tuoi sogni che non vengono spenti, che tutto sommato, a sognare hai scoperto che ancora puoi, che devi, che sei capace.

Sanno dei fari e del suono ritmico delle tue ruote sui giunti dei viadotti, di sole nascente che rimbalza su mandrie di Tir placidi ed incolonnati che tu sfili veloce, di quel lontano baluginio lucente, tremolante e così caldo che a fissarlo ti abbaglia, e non riesci mai ad evitare di farlo, con le dita leggere a tenere il volante.
Ti sorprendi, osservandoli quasi in controluce sul parabrezza, i tuoi pensieri, che la mattina presto son così, più leggeri e limpidi, e profumano e sanno di buono come lenzuola stese al sole e che raramente spaventano, o preoccupano.
Ti sorprendi, pensando ai sorrisi ed ai volti ed alle camicie ed alle parole che scambierai, alle mani ai muri ed alle cose che toccherai ed agli occhi in cui ti riconoscerai. Ti sorprendi viaggiando, guardando colline che nascondono altre colline e poi ancora altre, pensando a chi ti aspetta e magari ancora riposa, e nel frattempo  nel sonno che lieve va a spegnersi, chissà perchè sorride.
Ed in quel momento hai la percezione che ne vale assolutamente la pena.

Ed allora vai ancora più forte, un poco più forte, per far prima.

martedì 5 aprile 2011

L'esame di coscienza

Te lo fai, bello mio, volente o nolente, quando guardi tua figlia a lungo negli occhi che sono scuri come i tuoi e, per la prima volta nella tua vita, quegli occhi li trovi distanti.
Questo accade subito dopo che ti si è raggomitolata vicino, come a suo solito, e mentre ti accarezza distrattamente la barba lunga di giorni di lavoro fino a più tardi ancora del solito (che è già tardi di suo) ti chiede se, al posto delle musiche che le hai registrato sull'Ipod (regalo dello scorso compleanno e superpersonalizzatissimo con la scritta serigrafata "Ciccia's Ipod by Totson") - belle papone mio, ma sono tutte un pò una lagna - posso anche scaricarle "Bastardo" della Tatangelo e "Rap Futuristico" di Fabrifibra.

Ho subito pensato di informarmi se esistano centri di recupero.
Mi viene da chiedermi dove ho sbagliato. 
Forse non sono stato un padre abbastanza severo.
Ma mi han anche detto che queste cose, se prese in tempo, ci sono buone probabilità di raddrizzarle.
Però gliele ho scaricate lo stesso. Masochista, oltretutto.

mercoledì 23 marzo 2011

La mano dell'angelo.

Ne ho parlato qualche giorno fa e la commozione è salita ed è rotolata involontariamente fuori insieme alle parole. Proprio come allora, esattamente come ogni volta che rivivo quegli istanti e come anche in questo momento, che ne scrivo.
E' stata una parentesi aspra nella vita splendida che vivo insieme a mia figlia, come se ti lacerassero la pelle aprendoti uno strappo con le mani. E come tutte le ferite profonde, non smetterà mai di farsi sentire sotto la cicatrice.
Ricordo tutto di quei giorni, ricordo tanti volti, tanti gesti e posti ma non ricordo il volto di una persona. Idealmente l'ho inserito qui. E' lui il protagonista di quella e di questa storia.

I fotogrammi importanti ce li ho tatuati dentro. Lo spavento iniziale, quando di mia figlia, incomprensibilmente, in un attimo era rimasto solo il corpicino febbricitante ma lei non era più lì. Poi le ambulanze, le urla, la disperazione, la corsa frenetica all'ospedale più vicino. Lo smarrimento e l'incapacità di comprendere quello che stava accadendo. E lo spavento inaccettabile ed inconcepibile della prima diagnosi - non escludiamo che possa essre in pericolo di vita -  fortunatamente enormemente sbagliata.
E nello stesso momento, lentissimo, è iniziato il risveglio.
Le sue prime parole, mormorate lontane in una specie di dormiveglia sono state "voglio un bacino". Erano la cosa più incredibile e meravigliosa che fosse mai uscita dalle sue labbra, perché in quell'istante l'avevo ritrovata. Eravamo ancora insieme.
Era l'ultimo dell'anno. Siamo partiti dal primo ospedale e arrivati a quello dei bambini di Torino che erano le undici di sera. Abbiamo sentito le campane ed i botti mentre la mia piccola, esaminata scrupolosamente da uno staff di un'umanità confortante, ritornava pian piano insieme a noi. Riaprendoli quegli occhi smarriti, uno era storto.
La mattina dopo era rimasta solo la febbre alta, a tormentarla. E gli occhi erano tornati normali, e splendidi come sempre.
Da lì dieci giorni di esami ed isolamento, con quella febbre che non voleva saperne di perdere la sua forza. Di flebo cambiate, di giorni a fare esami e di notti a guardarla ed a proteggerla solo i miei occhi ed il mio cuore e le mie mani sempre nelle sue.   
E fuori e dentro dai laboratori, tra prelievi ed i mille esami fatti per capire cosa era successo, perché quel piccolo cervellino era andato per un attimo in corto circuito, c'era anche una TAC, per scongiurare possibili subdoli mali in agguato proprio lì.
E con tutto il tatto possibile, con tutti i vedrete che tanto non si troverà nulla, la data fissata per l'esame era come un macigno che aumentava di peso ogni giorno.
Il laboratorio dove veniva fatto l'esame era dall'altro capo della città e così, quella mattina presto caricarono la mia Ciccia sulla barella di un'ambulanza e partimmo.
Lui guidava l'ambulanza, in quella mattinata grigia di Torino all'alba. Un uomo robusto dagli occhi chiari e la divisa arancione, di lui ricordo solo questo. Io e la mia piccola eravamo stati rinchiusi in una stanza per tutto quel tempo e quell'uscita ci intimoriva. L'essere oggetto degli sguardi di apprensione nei corridoi, quando avrei voluto gridare a tutti cosa avete da guardare che mia figlia sta bene. Eravamo insieme, deboli e spaventati. Lui se n'è accorto, forse anche un cieco sordomuto l'avrebbe avvertito, ma il viaggio di andata è stato tutto un susseguirsi di battute per far ridere più me che lei. Sentivo il suo sguardo che mi osservava ogni volta che mi perdevo nelle mie angosce.  
L'esame fu fatto in fretta, mi levarono orologi e catenine e rimasi a tenerle la mano ed a rassicurarla mentre il cilindro ronzava intorno alla sua testa.
Poi, fuori, l'attesa. Mezz'ora, quaranta minuti, non di più, probabilmente. Ma interminabili, di un'angoscia che montava e non mi dava tregua, di pensieri e pensieri e pensieri, di mille se e mille ma. Lui, intanto aspettava, incurante e tranquillo, il momento per portarci indietro.
Ad un certo punto esce dalla porta dei referti un medico frettoloso, che non mi considera e parla direttamente con lui, gli consegna una busta verde e gli dice di riportarci indietro che lui non ha l'autorizzazione per dire niente ed in ospedale ci spiegheranno. Si volta e fa per tornare dentro, lasciandomi incredulo, svuotato e perduto.
Ma una mano sulla spalla ferma il suo passo veloce. E la voce dell'autista, pacata gli dice semplicemente "No".
Il medico si volta, sorpreso. E l'altro, con calma, fissandolo tranquillo negli occhi e con la mano sempre paternamente appoggiata gli ripete: "No. Noi di qui non ce ne andiamo. Lo guardi, è il padre - indicandomi con un cenno del volto - ed adesso lei ci dice solamente che possiamo andare via tranquilli. Il resto poi ce lo diranno anche in Ospedale".
L'altro si trincera subito dietro ad un "non posso" poi guarda me ed i miei occhi disperati, guarda lui e la sua mano che non l'avrebbe mai lasciato andare, i suoi occhi chiari ed il sorriso di uno che non sarà un medico ma sa cosa c'è nel cuore della gente. Forse anche lui, come me, vede le sue ali, sbattere pigramente.
Lentamente si toglie gli occhiali e pulendoseli con un lembo del camice il suo volto si rischiara di un sorriso quasi vergognoso e guardando le lenti dice solamente "Come ho detto prima ritornate indietro. Ma tornate pure indietro tranquilli, è tutto a posto". Si volta e sparisce.
Il mio volto è rigato di lacrime e non ci posso far niente.
L'autista mi guarda con uno sguardo da prendermi in giro, poi mi dà un finto cazzotto sulla spalla, e spingendo la barella con su mia figlia mi sussurra quasi ridendo: "Te lo dicevo io. Sai, l'aveva capito quello che se non ci avesse detto niente l'avrei anche preso a sberle. Sù asciugati, che tua figlia ha solo bisogno che tu rida" e come niente fosse ci carica e ci riporta indietro. Dopodichè sparisce, a dispiegare le ali da un'altra parte.
Sapete. E' bello sentire gli occhi umidi, pensando che questa sera ed ogni altra a venire potrò asciugarmeli tra i suoi capelli, leggendole la favola della buonanotte.

martedì 15 marzo 2011

Riempi il mare

Me le immagino in fila, disposte ordinate, con un impalpabile velo di polvere. Ognuna con la sua linea, la sua forma, il colore ambrato del vetro, che racchiude la sua inspiegabile storia.
Le ho riempite con cura, una per una.  
Ce ne sono di ancora così limpide e trasparenti, con la sabbia finissima leggermente inclinata sul fondo ed odorose d'estate e di sorrisi, ed altre invece contenenti le spume di tempeste violente, graffi rabbiosi  che ancora le agitano invano. Non sempre è stato facile accettare, sigillarle e metterle via là, sul ripiano alto. Forse più per alcune che per altre: una prima, e poi un'altra ed un'altra ancora. Tante? Non si contano, le onde. Ognuna ha una storia unica, un profumo, una corrente lontana che l'ha portata alla spiaggia dove l'attendevi.
Ognuna l'hai osservata a lungo e ne hai indovinato, ancor prima che questo accadesse, il rumore che avrebbe fatto infrangendosi. Se qualcuna l'hai scelta o se invece, nello stesso istante è stata lei ad aver scelto te, alla fine importa poco.
L'abbraccio del mare è totale ed inebriante, quando abbandoni le tue certezze e ti lanci nel tuffo, sentendo pulsare la vita stessa nello slancio e nel brevissimo istante del volo, dal cielo verso quell'onda che è lei e nessun'altra sarà mai uguale; rivivi, toccando ogni bottiglia chiusa, il momento unico ed indescrivibile in cui ti ha accolto e tu stesso sei stato mare e poi in fondo, giù, verso quell'abbraccio liquido e bellissimo, dallo scintillìo della superficie alla profondità più oscura, verso le correnti che ti han preso e trascinato e tenuto, a volte a lungo. Hai imparato a nuotare ed farti forti le braccia, ed a sperare di poterlo fare per sempre. A tue spese hai scoperto che non puoi, restando rigido affrontare le onde delle mareggiate più forti. Devi darti senza nasconderti, devi farti catena, per non farti strappar via da quella forza e perderti.
Sì, sei rimasto a galla fino a sentire le braccia dolenti, hai nuotato a lungo, a volte hai fatto il morto guardando il cielo osservando i gabbiani inseguire traiettorie incognite, tentando di rimanere immobile il più a lungo possibile. Poi, alla fine sei sempre riemerso, per non affogare. Ed è solo ritornando a riva alla ricerca dell'onda successiva che hai scoperto tagli nuovi, che sùbito non avevi sentito, che non avevi avuto voglia di ascoltare.

E un'altra bottiglia, a raccogliere il mare.

Ed adesso immagina, per un momento solo, se fosse possibile, ancora una volta, riaprirle. Se potessi scaraventarle contro un muro per vederle infrangersi, esplodere nell'impatto e recuperarne immutata l'energia viva e dirompente. Sarebbe da pazzi, ritrovare addosso la forza e la freschezza di quelle onde, riscoprire intatta ogni emozione di allora, i battiti del cuore impazzito e mille parole disperse. Ed il salato che sa di lacrime del mare, qualche volta. Poter reinventare il tempo ed immergersi ancora giocando coi ricordi, mischiare e riprovare le paure e le gioie, se fosse possibile spiegare, ragionare e comprendere il perché di un'unica splendida pazzia, di quel mare e della sua energia furiosa, nascosta, in attesa, anche nelle sue onde più placide.
Perchè siamo solo il nostro stesso mare.  E dal mare l'amore, in fondo, dista una lettera sola.

Se potessimo allora lo sai che riempiresti il mare.

E no che non si può spiegare, il mare.

Nè l'amore.

[Questo post partecipa al contest di "Io & Nina", L'Amore non deve essere un segreto]

mercoledì 2 marzo 2011

La ciccia

Eccola qui, la mia ciccia. Undici anni fa, nel più bel due marzo di tutta la mia vita. Eccoti qui, cicciosa, appena arrivata a casa, in una delle prime volte della tua vita in braccio al tuo papà ed in sella alla Poderosa. Me lo ricordo bene, quel primo momento in cui hanno aperto la porta e ti hanno donato nelle mie braccia, e quello stupore di averti, di conoscerti finamente, di toccarti e di respirarti. Quella vita che era la mia vita stessa, il naturale proseguimento di me racchiuso in un esserino frignante e leggermente disarmante, perlomeno all'inizio. Mia figlia.
Sapete, sono fortunato, ad averla, una figlia così. Abbiamo un rapporto speciale tutto nostro, di noi che ci cerchiamo e ci assorbiamo a vicenda, fatto gioia pura, di quel tenersi sempre strettissimi e cercarsi. Lei mi chiama Totson praticamente da sempre, non so da dove l'abbia tirato fuori, ma ci piace.
Quante volte ti ho portato in braccio, bimba mia, e chissà quante  volte ci riuscirò ancora, visto che stai diventando lunga quanto me, che oramai dalla parte di tua madre li hai raggiunti e per fortuna superati tutti, 'sta banda di puffi.
In quanti boschi abbiamo camminato insieme, sempre mano nella mano, a cominciare da quando ti caricavo nello zaino e ti portavo sù, io e te da soli, a raccontarti le storie degli alberi fino ad arrivare ad osservare di nascosto i camosci, salvo sentire che ad un certo punto la tua testa ciondolava e che ti eri bellamente addormentata. E quante volte mi sono saziato del tuo repirare lento, nella penombra della tua camera, mentre dormi serena di quel sonno così rassicurante che solo i bambini hanno. Cresci piano, ti surrurravo.
E guardati adesso, che è bastato un attimo di distrazione ed eccoti lì, cresciuta e bellissima, con tutti quei capelli lunghi, l'aria a volte da grande e quegli occhi che un pò, mi dicono, ricordano i miei.
Ma io  so. So che ho ancora la chiave per leggerci dentro, so qual'è il punto esatto nell'incavo del tuo collo dove mi basta appoggiarci le labbra per farti morire dal ridere, so come stai anche solo da come mi dici papà al telefono e so com'è il tuo sguardo la mattina appena sveglia. So come ridi per la felicità quando ci mettiamo seduti per strada come due clochard, indifferenti al mondo, a recuperare col chewingum ed il fil di ferro piegato le monete che qualcuno ha perso sotto una grata.
"Tua figlia per te sarà sempre una bambina e probabimente le comprerai un peluche anche quando avrà trentacinque anni", mi hanno detto oggi. E forse chi me l'ha detto ha ragione. Ma mia figlia è ancora una bimba per davvero, sembra solo grande, vi assicuro, ma vive di sogni, di abbracci e di baci, tanti e si addormenta ogni sera con le mie favole inventate nelle orecchie. Fate in modo che resti così, che resti bimba ancora per un pò, lasciate che non veda l'ora di sedermisi in braccio come fa ogni sera quando arrivo, ve ne prego, ancora per un poco, che il tempo con lei è passato veramente troppo in fretta.
Tua figlia la vizi troppo e vedrai, domani, quando crescerà, non manca di minacciare irosa ad ogni piè sospinto la consorte. Cambierà? Può darsi, ma per il momento lei è quella luce che rischiara ogni angolo di me, anche quello più scuro. Mia figlia non mi fa desiderare una vita migliore perché in questa c'è lei e vale tutto. 
L'avrò viziata troppo?  Sapete, ci pensavo l'altro ieri, quando al telegiornale han parlato di lei, anche lei figlia adorata di un padre come me che l'ha vista crescere giorno per giorno, al quale dopo tre mesi hanno strappato due vite e restituito un povero corpo rinvenuto in un campo. Una di quelle notizie che non vorresti sentire mai, a cui non vorresti pensare, con la quale non vorresti confrontarti ma sei obbligato a farlo. Ed allora mi chiedo dov'è il troppo? Perché se l'ho fatto, se l'ho viziata un poco di più del dovuto, beh, allora pazienza.

Ed adesso scusate e 'fanculo a tutto il lavoro che quest'oggi devo ancora fare, ma adesso spengo il cellulare, esco di qui e vado a comprarle il duecentotrentaseiesimo peluche.
Auguri, Ciccia.
Tuo Totson.

venerdì 18 febbraio 2011

Il mare che mi porto dentro


Ci sono al massimo tre posti dove mi sento in maniera assoluta e confortante a casa. Nessuno di questi è dove vivo attualmente.
L'ultimo in ordine di apparizione è il mio studio, con grande disappunto della consorte, ma che volete farci, è mio, l'ho realizzato praticamente con le mie mani e ne conosco ogni goccia di colla a caldo che lo tiene insieme, è comprensibile.
L'altro è la casa in montagna, che sono quelle cime aguzze così vicine, dai vetri della finestra,  il giardino con gli abeti maestosi che sono cresciuti insieme a noi e la stanza dove è nata mia madre che adesso è diventata la sala. E' anche lo spazio che custodisce il mio più lontano ricordo di bambino: avevo tre, forse quattro anni ed il veterinario era venuto a porre fine alle sofferenze del vecchio pastore tedesco di mia nonna.
L'altra è qui. Non so se sapete dov'è, ma è, a detta di tanti, uno tra i luoghi più belli d'Italia. Per me è unico, ma per motivi esclusivamente miei. Qui hanno trascorso la loro vita insieme i miei nonni paterni, qui è nato mio padre e qui ho passato tutte le mie vacanze estive per quasi trent'anni. L'aria che ho respirato, che odora di mare e frittura, di grida del mercato del sabato e della risacca nella notte quando il mare sembra placido e sonnolento, quell'aria mi è entrata dentro ed ha lasciato tracce indelebili prima di uscire. Questo posto mi appartiene. O io a lui, è uguale.
E se chiudo gli occhi un istante mi sembra subito di sentire il tacchettare degli zoccoli che, scendendo rapide scale dai gradini diseguali, rimbalzano sui muri di carugi stretti e scrostati. Ed ecco subito dopo l'arco la fontana della Compagnia, dove andavamo a dissetarci da bambini dopo le estenuanti partite a calcetto sul piazzale assolato della chiesa, con il muretto, le panchine e gli oleandri profumati. Ritrovo nei miei pensieri mai dimenticati Tony e Fabrizio, i miei amici da adolescente, le loro case, le loro famiglie e le nostre risate intatte.
Ecco Musetta, la nostra barchetta, che dondola pigra sull'acqua di quel minuscolo porticciolo. L'avevamo portata giù legata sul tetto della Fulvia, in un viaggio epico. E la prima volta che l'abbiamo messa in acqua ci siamo saliti su in quindici ed è affondata subito, ed abbiamo perso il motore.
Questo posto sono tanti fotogrammi, tenuti legati insieme con l'elastico.
E' il caldo d'estate, torrido, che dopo pranzo ti obbligavano a riposare nell'attesa di poter uscire di nuovo, è la processione di persone in fila per recarsi al mare, ed i trecentoepassa gradini ad andare e quelli molto più lenti e pesanti a tornare indietro. E' la spiaggia della Fossola, di sassi lisci e tondi e di un'acqua così trasparente che nessun mare per me sarà mai così. E' la focaccia profumata, calda e salata che la mattina presto portava su lentamente mio nonno dal forno del paese e che stranamente andava a nozze con il dolce del caffelatte. E' la domenica alla messa e mia nonna che ci andava apposta in ritardo perché "Chi vuol esse ben guardata vada a messa cominciata" e poi le paste, enormi, a pranzo. E' la salita faticosa al Santuario, una volta all'anno, su per sentieri che si perdono tra i terrazzamenti dei vigneti. E' la frescura all'interno della chiesa e tutti gli ex voto dei marinai che mi affascinavano sempre, con quei quadri colorati raffiguranti navi bombardate che affondavano tra le fiamme e persone con le mani alzate e la madonna che sbucava da sopra una nuvola.
E' quella casa, vecchia e brutta e penso di non aver mai abitato in una casa più vecchia e più brutta e bellissima, con le persiane verdi con le bacchette per lasciarle scostate, con l'odore dell'origano che riempiva le stanze e i fili da stendere che cigolavano e mia nonna che prepara i ravioli sul tavolo imbiancato di farina.
Manco da lì da quando è mancato mio padre ed altri ci si sono insediati. Non ci sono più andato per rispetto, ma questa è una storia lunga e forse anche difficile da comprendere. Ma quel posto continua ad appartenermi, è parte di me, come un braccio o una gamba. Non l'ho perso. Semplicemente non posso farlo.
Ma ho l'assoluta convinzione che se, adesso, improvvisamente venissi catapultato in un punto qualsiasi del paese lo riconoscerei all'istante, da un lampione sbilenco o dal soffio del vento, senza dover voltare lo sguardo per orientarmi. Lo capirei probabilmente anche ad occhi chiusi. E mi ritroverei a casa. Rivedrei la cucina con l'acquaio in pietra, il pavimento in linoleum giallo e le vetrine con i bicchierini per i liquori, disposti ordinatamente in fila. Ritroverei un sorriso ripensando alla festa ed alle risate che c'era tra tutti quando si andava a prendere la farinata dalla Pia, così calda e croccante e ricorderei lo spavento di quella volta che mio padre era stato punto con una tracina andando a pesca e ce l'avevano riportato a casa più morto che vivo.

A quest'ora, adesso, dall'unica panchina della passeggiata della lissa, sotto all'albero contorto, il mare scuro che si è fuso nel cielo riempie completamente lo sguardo e c'è sicuramente quel silenzio di pace che è solo il rumore incessante delle onde. Le luci delle lampare all'orizzonte appaiono e scompaiono e quelle degli altri paesi, lontani sulla costa, sembrano cadere nel loro stesso riflesso tremolante. Preceduto dal solito scampanellio ogni tanto sbuca un treno dalla galleria ed il rumore dei vagoni che passano veloci improvvisamente riempie l'aria. Poi rimane indistinto il suono di ferro su ferro che piano si smorza e cade, insieme al turbinio di polvere ed a pezzi di carta che hanno volato impazziti per un minuto.

Ed ecco, sono veramente qui, appoggiato a quella ringhiera verniciata di azzurro di cui saggio la rugosità con la punta delle dita, che guardo il mare e ne respiro ancora una volta, forte, più forte ancora, l'odore.

martedì 15 febbraio 2011

Solo. Come (e con) un cane.

Ed inanello i giri uno dietro l'altro, al mio parco. Il fiato si fa più forte, non è più come all'inizio, quando la benzina durava così poco ed arrancavo subito dopo il primo chilometro. Adesso ho la percezione dei muscoli mentre spingono portando in avanti le gambe e, per la prima volta, ho la consapevolezza di stare correndo ancora una volta. E lentamente, il tempo per percorrere dieci chilometri, si srotola riducendosi. 
Ed ho corso anche oggi, che mi han detto che son "fuori come un geranio da balcone", che pioveva e faceva freddo, ma un freddo signori che neanche la mia maglia bionica stavolta poteva far più di tanto. Musica nelle orecchie a tenermi compagnia, è da un paio di settimane che alterno i miei brani all'ascolto di "In the Music" di Lucilla Agosti su RMC che incontra i miei attuali gusti.
Mi piace correre se piove, sempre, quando cadono quelle goccioline rade d'estate e le fronde degli alberi le raccolgono e ti proteggono, quando vien giù fittissima e pensosa come oggi o negli improvvisi piovaschi dei primi caldi. Mi piace, mi ci immergo, mi avvolgo e mi bagno di fuori e di dentro.
Oggi non c'era veramente nessuno, tranne due che andavano come missili e pochi sparuti altri che, per fortuna correvano più piano di me, in questo spiazzo di verde ed asfalto stranamente deserto, nessuno tranne un passante indistinto lontano nei lunghi rettilinei sotto gli alberi ancora spogli e grigi, nessuno tra le pozzanghere punteggiate di centinaia di cerchi e di coriandoli spiaccicati a macchie sull'asfalto.
Vuote le panchine, vuote le altalene ed i campetti di tennis. Non c'era il solito vecchietto che corre, curvo, tenendo stretto il suo sacchetto con il ricambio, che ogni volta che lo sorpasso lui cerca di accelerare il suo passo ed io rallento leggermente il mio. Più furbo di me, per oggi.
Non c'erano le foglie sbriciolate accumulate ai margini del vialone di ieri, assenti i primi profumi che hanno iniziato ad accompagnarmi da qualche giorno.
E non c'erano i miei nuovi tre amici, che in poco tempo siamo diventati abitudine l'uno per l'altro.

Perchè, da qualche giorno, ho tre amici nuovi

Il primo è un Lhasa Apso bianco e nero ed il secondo il suo padrone. Il Lasha Apso  dovrebbe essere un cane. Ma è un cane bonsai, uno strapuntino riccioluto, un soldo di cacio di cane tutto pelo e niente arrosto che puntualmente, ogni volta che gli passo accanto mi punta e risolutamente mi arriva addosso facendo il ferocissimo, tutto latrati e denti in bella mostra. Ora, io dei cani ho paura, ma a tutto c'è un limite. E 'sto Cugino di Campagna dei cani lo fa apposta, l'ho osservato bene, mettendomi in coda dietro agli altri runners, con loro niente, li lascia passare e non li considera, ma con me è diverso, mi scruta da lontano, inizialmente la prende larga, si gira annusando l'erba facendo finta di niente e poi appena sono a tiro parte alla carica. E percorrendo quotidianamente dieci chilometri sono almeno dieci volte che lo incrocio e che lui fa finta di addentare le mie caviglie. Perché fa finta, il topo. A pochi passi si ferma, altrimenti rischierebbe di venir calpestato e lo sa bene. E non serve deviare, lui mi aspetta. E se n'è accorto anche il suo padrone, che l'altro ieri l'ha portato al parco al guinzaglio. Ma quando l'ho visto legato, anche se sapevo che se ne sarebbe fregato comunque, ho pensato che non fosse poi così giusto. Era il suo svago, il suo modo di divertirsi, forse gli stavo antipatico o non gli piaceva il colore della mia tuta. E così non appena è partito alla riscossa, in un turbinio di pelo e abbaiate stridule, mi sono fermato, inginocchiandomi, e l'ho preso alla sprovvista, carezzandolo e chiedendogli il motivo di tanta rabbia, proponendogli invece di accompagnarmi per un giro e facendogli rispettosamente notare il divario di altezza tra noi due. Ed ho scoperto che quella pulce non aspettava altro che un minimo di considerazione, ed in un attimo è stato tutto uno scodinzolio e leccatine. Fine della guerra, ho pensato.
Ma non appena mi sono rialzato il botolo ha immediatamente riacceso le ostilità. Esasperando anche il padrone, un anziano pensionato, che si è scusato confessandomi di non poterci far niente e con il quale ho scambiato qualche chiacchiera. Ed abbiamo iniziato a salutarci giro dopo giro, giorno dopo giorno, ed è andata a finire che adesso, mentre il primo mi abbaia, il secondo mi osserva arrivare da lontano, mi sprona se mi vede stringere i denti e sorride quando interrompo l'allenamento per accarezzare le orecchie del suo animale. 

Il terzo è un bambino di colore, con gli occhialini tondi e i capelli tagliati cortissimi. In un tratto il parco fiancheggia una scuola materna. All'ora di pranzo, specie quando fa bel tempo, le maestre fanno uscire i bambini a giocare. E questi irrompono nel viale, contenti e gioiosi, a rincorrersi, a giocare a pallone e ai quattro cantoni. E se non fai attenzione cercando di prevederne le mosse rischi che te ne metti  qualcuno sotto le suole.
Beh, lui non gioca tanto insieme agli altri. E' più spesso in disparte, magari è nuovo, o è un pò come ero io alla sua età, spero non sia dovuto alla diversità del colore della pelle. E mi osserva passare, ci osserva passare, l'ho visto il suo sguardo stupito ogni volta, di ammirazione reverenziale quasi, per noi così grandi che corriamo ancora ad inseguire i nostri sogni. E così un giorno gli ho fatto un sorriso ed un cenno di provare a seguirmi e tanto è bastato. Per quei trenta-quaranta metri in cui s'incrociano lo spazio dedicato ai loro giochi e la mia corsa mi corre a fianco, cercando sempre di battermi. E il giro dopo lo vedo, eccolo lì che mi aspetta, da solo ma non è solo come l'avevo visto prima, è lì che mi attende e si prepara, e in quei dieci secondi si libera e corre e si impegna e non è più da solo, ma è il mio terzo nuovo amico che corre felice insieme a me.
Tranne questa volta. Involontariamente li ho cercati, anche se immaginavo di non trovarli. E mi son sentito più solo a non vederli, da sotto i capelli che grondavano di pioggia.
Un poco, ma un poco soltanto.

lunedì 14 febbraio 2011

Ed un Buon S.V. a...

A me, innanzitutto. A me ed al mio cuore, felice a volte, un pò matto ed un pò no, un pò disperato ed un pò no, a seconda di come spira il vento.
A me ed ai miei capelli lunghi che non faranno né ingegnere né quasi cinquantenne, ma li adoro e chissene.
Alle mie scarpe da running che mi hanno portato molto più lontano di quanto avessi mai osato sperare.
Alle mie stilografiche, ed alla bellezza di ogni particolare che le compone e che fa di ognuna di esse una piccola opera d'arte.
Alla mia necessità di scrivere in quelle volte che l'inchiostro sembra fluirmi direttamente dal di dentro.
Al mio lavoro, che la voglia di farlo bene e di cercare di migliorarmi sempre non mi passi mai.
Alla prossima volta in cui immergerò le dita nella magnesite, guardando in alto a cercare la via.
A chi respira.
Ai miei amori passati, puliti e veri, onesti e sfacciatamente bellissimi tutti, nessuno escluso e che, in fondo, passati non lo sono stati mai.
Ai miei amori di adesso, per le stesse identiche pulsanti motivazioni del punto precedente, oltre a qualcuna in più.
A cosa ancora potrà venire in futuro, se verrà. Quello che ho già avuto basta ed avanza.
A mia figlia, l'unico ed assoluto e bellissimo, totalmente disarmante nella sua completezza.
Alla mia consorte, per tutto quello che è stata in grado di darmi.
Ed a voi, gentili ed innamorati lettori di questo blog.

domenica 13 febbraio 2011

Limiti della tecnologia

Per farvi sorridere vi faccio parte di un divertente inconveniente capitatomi oggi.
Sono in studio, consegna urgente e figlia (11 anni) costretta al seguito ed obbligata a studiare il corpo umano per il compito di scienze di domani. Mi è costato un gelato, una mezza risma di fogli e rimettere in ordine matite pennarelli e colle sparse da tutte le parti. Lei si annoia, certo, ma io posso farci poco, devo lavorare e non posso darle retta più di tanto. Per farla stare tranquilla mi viene un'idea: la metto con le cuffie davanti ad un computer e su youtube le scelgo i filmati di "esplorando il corpo umano", così lei impara lo stesso ed io riesco a finire.

Me la dimentico e mi concentro sulle ottomila cose da fare.

Ad un certo punto, però, sento che mi chiede, seria: "Papà, cos'è la masturbazione?"

Attimo di panico ("ho scritto youtube o youporn????"). Mi giro di scatto per scoprire che qualche fine umorista ha inserito una puntata "clonata" nella serie, con le voci di quei malati dello Zoo di 105!
Ho passato mezza giornata sui libri di scienze, alla fine.
Ritornerò domattina all'alba, che è meglio.

sabato 12 febbraio 2011

Anema e GORE

Il più bello del parco era sicuramente chi vi scrive, oggi. Magari non proprio il più veloce, ma non andiamo a sindacare. E poi, lo stile, ce lo volete mettere o no?

Ma andiamo con ordine.
Ieri è venuta a trovarmi mia sorella maggiore - normalmente identificata con l'appellativo de "la pazza", giusto per distinguerla dall'altra ("la stronza"). In altri momenti la chiamo anche "la Guru", "la fondamentalista" o "AreKrisna", a seconda delle situazioni. L'altra invece, sempre "La stronza".
Non è normale, ve lo assicuro. La sua vita è stato tutto un susseguirsi di passioni estreme e contrapposte, dall'istruttore di sub all'eremitaggio. Tanto per fare un esempio tra mille,  a partire dall'età in cui si abbandonano le pappette  e per i successivi venti-venticinque anni nessuno in casa mia ha mai potuto assaporare il gusto delle cosce di pollo, che lei si è sempre allegramente divorata con prepotente diritto di primogenitura. 
Poi ha rinnegato il passato, e di colpo è diventata vegetariana. Convinta. Ed ogni sua cena a casa sua è un incubo, ve lo assicuro. Mortadelle di tofu, wurstel di seitan, pasta di alghe in salsa di soia tanto che mia figlia, subito dopo, mi obbliga a giurarle "maipiù" sul menù del primo Mc Donald's in cui ci rifugiamo per rifarci la bocca.
A complicar le cose, in seguito è anche entrata a far parte di una congregazione spirituale e lì ce la siamo definitivamente giocata. Per fortuna non sono fondamentalisti islamici, altrimenti non rimarrei sorpreso di vederla uscire la mattina presto con la sua bella cintura di esplosivo a tracolla.
Pensate che abbiamo a lungo sospettato che ogni appartenente a quella "setta" fosse esattamente come lei. Solo in seguito abbiamo saputo che loro, gli appartenenti alla setta medesimi, in fondo quasi normali, pensavano la stessa cosa di noi, cioè che quelli della nostra famiglia fossimo tutti esattamente come lei. Ambedue abbiamo tirato un respiro di sollievo.
Era lei l'anello debole, insomma. Mentalmente debolissimo, sottolineo.
Comunque il tema del post non era lei, mi scuso del deragliamento e proseguo.

E' venuta a trovarmi a qualche giorno di distanza dalla festa del suo cinquantesimo compleanno. Per la cronaca, vi dico solo che fortunatamente c'era anche cibo "normale", e così mi sono ingozzato di salatini, noccioline e... salatini (fine del cibo normale). C'era del vino "analcolico" (ho proposto il ripristino della pena di morte solo per il produttore) ed anche del cuscus "alternativo" fatto  sostituendo ogni componente che normalmente è nella ricetta del couscous tradizionale (mancavano difatti anche le "o") con Kombu, Dulse, Nori e via discorrendo.
Per la ricorrenza aveva anche diramato una "wishlist" in cui, tra occhiali senza lenti e letture tantriche compariva la richiesta per  una stilografica, quest'ultima esclusivamente di colore azzurro per non far sbarellare i suoi chakra già estremamente provati.
Compito mio, ovviamente.
Beh, questa l'ha veramente conquistata. Così, mentre la contemplava con gli occhi sbarrati, ho potuto svuotare il mio piatto di cuscus dietro la statua di Visnù intagliata nel Kamut. Ho divagato di nuovo, ma sapete, avrei materiale a sufficienza per dedicarle un post, da consegnare in seguito nelle mani di studiosi di antropologia criminale. 

Comunque, per farla breve :-) a qualche giorno di distanza si è presentata in studio. A nulla è servito dirle al citofono "Non compriamo niente" o "L'ingegnere non è in studio" pronunciato con la voce in falsetto. E' voluta entrare a tutti i costi, recando un voluminoso sacchetto con il marchio di un notissimo negozio specializzato in articoli per runners.

Un regalo per me, che da quaran..  cioè da quando son nato, festeggio il compleanno sempre il primo di gennaio. E' facile da ricordare, si segna da subito sull'agenda nuova dopo il disegnino delle trombette di capodanno. Ed invece no. Per sua stessa ammissione la mia ricorrenza è sempre stata messa in secondo piano, all'interno della mia famiglia. I miei festeggiamenti, da quando ho memoria, sono sempre iniziati con le frasi "Eh, scusa, è che subito dopo il Natale non è che siano rimasti tanti soldi, e poi siamo in montagna e qui non sappiamo cosa comprarti, che poi è anche tutto più caro, e poi abbiamo ancora il malditesta del doposbornia di Capodanno e tu che vorresti festeggiare sei anche un pò egoista", manco avessi io deciso di nascere proprio quel giorno perchè ammalato di protagonismo.
Questo ogni anno. Nessuno escluso.
Ho provato anche a dirgli "Organizzatevi", "Portatevi avanti con il lavoro poensandoci ad Ottobre", ma loro niente, ogni anno la stessa deludente (per me) storia. Ho ricevuto regali inutili ed immondi, e tra questi il più ignobile, il culmine delle robe orribili è rappresentato da una scatola in legno con coperchio, con su scritto "Ti parlano dietro", contenente quattro fagioli.
Non ridete.
Me l'aveva regalato mia sorella maggiore, ovviamente.
Beh, l'altro ieri la pazza ha avuto uno dei suoi rari momenti di lucidità. Ed è venuta a dirmi che è sinceramente pentita e si è ravveduta per tutte le ingiustizie inflitte. E conseguentemente ha svuotato un negozio a caso, per fortuna proprio uno di quelli che svaligerei volentieri anch'io.
Mi ha comprato, nell'ordine:
- Un  paio di calze da running Nike bellissime
- Un paio di calze da running Thorlo Experia incredibili
- Una maglia intimo per correre XBionic 3D Bionic Energizer che penso ce l'abbiamo io, Andrew Howe ed Oscar Pistorius. Tiene freddo quando fa caldo, tiene caldo se fa freddo, ti fa la pancia piatta ed i pettorali scolpiti e ti sussurra anche quanto sei bello mentre corri.
- Una tuta Gore per correre che è una F-I-G-A-T-A assoluta.

Mi ha lasciato, per la prima volta nella mia vita, quasi senza parole, che ho recuperato prontamente nel momento in cui, approfittando del mio momentaneo inebetimento ha provato a scassarmi gli zebedei con la sua missione di ricondurmi nel mondo dell'anima originale, mondo dal quale è caduta, in un lontano passato, una parte dell'onda di vita umana (giuro che è vera).
Mi ha definito "pragmatico" ed ha detto che mi vuole bene.

L'ho cacciata dallo studio con il sorriso sulle labbra.
E sorrideva anche lei, sicuro.

martedì 1 febbraio 2011

La neve a febbraio (quasi)

E' un regalo a sorpresa. Scartandolo ritrovi l'incanto di sempre, immutato nel tempo, lo vedi dai primi fiocchi titubanti, ricordi bene come facevi da piccolo, adesso che a volte ti senti padre e piccolo ancora nello stesso tempo, con quella mano calda nella mano e quel cuore addosso al cuore, quel sorriso vicino e quella voce che è tua e che mai nessuna voce sarà così, per te. Ti fermi e non pensi, non sai, ti perdi sospeso nel tempo rallentato che vede discendere i fiocchi, osservi dai vetri guardando verso la luce dei lampioni, per veder meglio se aumenta, per esser sicuri che non smetta, che non smetta mai, che ne faccia due metri, due nasi schiacciati contro alla finestra gelata ad appannare il vetro ed a disegnare cuori e chiavi di violino, ascoltando insieme il rumore del silenzio che fa.
E' uscire di nascosto, alle undici di sera, shhhh! dai, ridi piano che nessuno deve sentire che siamo scappati di casa, un padre ed una figlia insieme, due cuori matti così vicini che si toccano tra i fiocchi che scivolano. E' la bellezza avvolgente di una passeggiata nel mondo che tace, nessuno per strada, neanche il rumore del traffico lontano sulla statale, che così anche bucodiculoplace ammantato nell'incanto sembra quasi un paese di Dickens, con gli alberi carichi, le piazze coperte ed i campanili che svettano nella luce gialla e nello sfarfallio dei fiocchi illuminati che così sembran tanti di più. E' tenersi per mano e tirare fuori la lingua guardando verso l'alto, a vedere quella moltitudine di briciole che sbucano dal niente blu scuro della notte e roteando ti arrivano addosso, guarda quel fiocco che grosso, lo prendo io. E' sentire quel rumore che solo la neve fa quando  i passi compattano quella già caduta, è osservare le strade candide ed ondulate di marciapiedi e tombini dove non è ancora passato nessuno ed inventarsi le orme più bizzarre, di elefanti ubriachi, pantere e piedi nudi dello Yeti. E' camminare tenendosi sempre per mano e ridere ridere ridere, che le risate rimbalzano sul manto sul silenzio e sul candore di mille brillanti riflessi delle luci, e così sono più cristalline e più belle anche le risate della tua bimba, è il fiato di fumo che esce ma non senti freddo, tu d'altro canto mai, mai, ma neanche la tua piccina, lo credo bene, che lei prima di uscire si è messa duemagliequattromaglioniduegiubbottielagiaccaaventodisuamadre ed il berrettone con il pompon e le sciarpe con i pompon, che così imbaccuccata sembra l'omino Michelin che ride, che cade e rotola e ride.
E' fare la gara a scivoloni, giù per la discesa, a prender la rincorsa e vedere chi rimane in equilibrio più a lungo, e giocare poi a palle di neve e gelarsi le dita  e ridere ancora, nascosti dietro agli alberi, a cercar di colpire il ramo carico sopra la testa, in questa notte che notte non è, con un chiarore che si riflette sui fiocchi e sul bianco e si amplifica e si espande.
E' fare il pupazzo di neve più grande del paese, cominciando facendo rotolare una palla e finendo spingendo faticosamente un cilindro che in due non si riesce quasi più a girare, è cercare i due rami per le braccia ed essersi ricordati di sgraffignare dal frigo una carota per il naso e due olive per gli occhi. Sono i tuoi capelli più lunghi che mai e più ricci, così bagnati dalla neve, che coprono gli occhi che non si sono ancora saziati, nonostante gli anni passati a vederne, di nevicate così, di meraviglie così.
E' tornare a casa felici e bagnati, bagnati fradici con le mani gelide intrecciate e ridere ancora piano, chiusi in bagno ad asciugarci a vicenda, in due sotto lo stesso cappuccio dell'accappatoio.
E' vedere addormentarsi tua figlia, che scivola nel sonno dicendo speriamo che non smetta stanotte, papà, con un sorriso sereno che è così bello e che, come la neve che cade, non ti stancherai mai di guardare. 
Speriamo che non smetta mai, bimba mia.

sabato 29 gennaio 2011

Ha ragione Oliver


"Corri perchè è una fuga sana, anche se temporanea, ma al ritorno non sei quello che è partito, sei più lucido, più pronto. E se non lo sei dovrai correre ancora un pò".
 
Ha perfettamente ragione lui, devo convenirne, anche se lui va come un mostro. Al ritorno sei diverso. Novanta volte su cento sei meglio. E per quelle dieci che invece no la cura è quasi sempre la corsa del giorno successivo.
I miei passi veloci si son perduti sul lungomare di Livorno, ieri. Giornata di sole e temperatura di dieci gradi, insolitamente afosa, se confrontata con i -3° delle mie solite uscite al Parco qui.
E la cura ha funzionato, è stata un tonico, fresco e salutare. Mi sono elegantemente liberato dall'invito a pranzo dell'impresa e, lasciando stupiti i partecipanti alla riunione (ad eccezione dei miei, ormai abituati alle mie stravaganti fughe dalo studio per andare a correre dopo aver ingurgitato "becchime" al posto di un pasto decente), ho gentilmente rinunciato al risotto alla marinara ed alla frittura di pesce - cosa che a ripensarci adesso mi procura un notevole aumento di salivazione - e mi sono allontanato per un'oretta.
E così, recuperato uno spazio nella mia banca (già, spesso "mi faccio" le banche) ormai terminata e bellissima (già sono stato proprio bravo e me lo dico anche da solo :-) ) e lasciando vagamente perplessi impiegati e clientela mi sono cambiato, ho inforcato gli occhiali che mi separano dal mondo, acceso il lettore su Malika Ayane e via.
Via giù subito per lo scalo d'Azeglio e poi giù, subito a cercare il mare, annusandone la traccia, tra il lezzo dei gas di scarico delle auto, individuandone la direzione dal chiarore del cielo dietro ai palazzi austeri. E la musica si è messa ad andare a tempo con i miei passi e con l'odore aspro del salmastro che sembrava mi chiamasse e i pini marittimi contorti e rugosi incastrati tra le panchine del lungomare, chiusi nel loro letargo invernale, che comunque anche d'inverno portano lieve quel profumo così speciale, leggero di resina acidula e di sale, che racchiudono ricordi d'estate, di ombra e cicale, con i rami che sembran finti quasi, di plastica ruvida da come son fatti, e poi ad ondate altri odori e luci e ombre, e la passeggiata e la gente che mi guarda un pò straniti, tutti qui  molto imbaccuccati anche se io già sudo, nessun altro runner in giro ed anche qui fidanzati sulle panchine ricchi di baci e parole buttate a prendere il volo nel vento freddo d'inverno di mare, promesse di amori eterni ed altri baci ancora, e pescatori pazienti e vecchiette dai passi esitanti con cani anziani e spauriti ed imbaccuccati anche loro, e bimbi riccioluti e gioiosi che rincorrono colombi svogliati, con i loro passetti saltellanti  e che si arrestano perplessi quando gli passi vicino. E la strada corre veloce sotto le suole, il riflesso dell'acqua si adagia sugli scafi alla fonda delle barche che dondolano pigre e ti guardano passare. Stai bene, qui, estraneo tra vite estranee, lontano dalla tua, sembra che buona parte dei tuoi pensieri sia rimasta cinquecento chilometri più a nord. E tu vai, sorpassi la gente e vai, le gambe incrociano gli stessi passi che avevi percorso mesi fa, ma allora eran gambe stanche e legate, il fiato era opprimente ed erano più fresche le ferite di fuori e di dentro, mentre adesso è diverso, il corpo ha imparato e reagito, è solo la mente che, a volte, fa fatica a stargli dietro. Arrivi all'Accademia Navale e prosegui dove sai che stai andando, dove in qualche maniera c'è chi ti sta attendendo e sa perchè sei lì. Abbandoni il lungomare e ti sposti verso l'interno, attraversando viali alberati, fino ad arrivare alla rotonda chiassosa e caotica dove, al di là di quel muro, c'è tranquillità, come si conviene, come deve essere.
Il silenzio del cimitero dell'Ardenza è fatto di passi che scricchiolano sulla ghiaia bianca. Di lapidi antiche, sbilenche, di statue desolate e vecchi gigli di plastica testimoni di dolori lontani ed inesorabilmente accolti e di mazzi di fiori freschi per quelli più dolorosi e taglienti. E' qui che riposa anche mio zio, quello che mi ha insegnato l'amore per la montagna che mi porterò dentro, quello sempre pronto a combinare gli scherzi peggiori. Per un bizzarro caso del destino ambedue i miei due zii nati tra i monti sono andati a morire al mare. Il primo, mai conosciuto e di cui porto il nome ha falsificato i documenti per arruolarsi volontario in Marina, nei sommergibilisti ed è morto a Malta, durante la guerra. L'altro, il mio zio preferito, quello che ritrovo nei miei migliori ricordi di bambino invece riposa qui. La mia medaglietta con su scritto il suo nome la sento chiaramente, sul petto.
Il sole, il caos del traffico e la strada del ritorno mi ritrovano, dieci minuti dopo. Riaccendo il lettore, rimetto il cappellino, inspiro a fondo. E' ora di tornare, di correre ancora. Attraverso veloce questa città strana, a tratti aristocratica ed elegante e subito dopo scalcinata e sporca. Percorro strade sconosciute, mi metto in coda ad un anziano in bicicletta e mi faccio trainare per un pò, poi lui devia e io proseguo da solo. Taglio nell'interno per far prima, per evitare di arrivare troppo in ritardo, intravedendo i riflessi del mare solo a sprazzi. Corro bene, mi sento andare, tranquillo e veloce, senza forzare. La mente è, stranamente, sgombra. Di lì a poco attraverso le vie larghe della zona pedonale in centro, che mi riportano da dove ero partito un'ora prima.
Gli altri mi vengono incontro rilassati, con l'aria soddisfatta di chi ha mangiato bene. "Non sai cosa ti sei perso", mi dicono compiaciuti, con i bottoni delle camicie un poco tesi.

"Neanche voi", ribatto sorridendo.