martedì 11 agosto 2009

Appeso con due dita alla vita - Sveva

"Arrivo, arrivo subito, signora Lucia" La vocina querula da vecchia chioccia l'aveva chiamata di nuovo, e poi ancora. Finì di ripiegare le camicie da notte che era andata a ritirare in lavanderia ma che, secondo la vecchia, "qua non le stirano per niente bene", per cui lei doveva riprenderle e ridargli una una spuzzata di appretto ed una rapida passata col ferro. Le appoggiò delicatamente nella cassettiera e tornò in salotto, dandosi una rapida pulita alle mani nel grembiule bianco della divisa. La signora ci teneva molto al decoro, per cui, quando erano nell'ampia casa di Torino o nell'appartamento in montagna, sempre lo stesso che prenotava da ormai più di vent'anni, immancabilmente pretendeva che lei si acconciasse con la divisa e la crestina "casomai dovessimo ricevere visite". Povera vecchia; oramai le poche volte che qualcuno bussava alla loro porta era unicamente il servizio in camera.

La vecchia era sistemata sulla poltrona imbottita in legno e tessuto ruvido vicino alla portafinestra che dava verso il parco e guardava fuori, in alto oltre le pendici boscose del Colomion. Sorrideva, con i suoi vecchi occhi azzurro chiaro, resi velatamente liquidi dalla cataratta. "Eccomi, signora Lucia. Di cosa ha bisogno?", disse nel suo italiano che avrebbe portato per sempre la pronuncia della sua terra, facendo un inchino appena accennato, come le era stato insegnato appena aveva preso servizio da lei.

Lucia distolse lo sguardo da fuori e per un attimo, il contrasto tra la luminosità dell'esterno e la leggera soffusa penombra dell'interno della camera dai colori caldi, le impedì di vedere la ragazza che le stava di fronte, indistinta in uno spazio scuro. Chiuse per pochi secondi appena gli occhi, mentre con le dita accarezzava la levigatezza del pomolo di legno della poltrona riconoscendo al tatto le venature e, quando li riaprì, i colori della stanza parevano avere ripreso vita e sia le pareti sia gli oggetti erano diventati chiari e conosciuti. Ora la vedeva bene. E sorrise di nuovo guardandola, vedendola bella come lei stessa era stata, mille anni fa, maledetto il tempo che era passato troppo in fretta, lasciandole addosso uno zaino pesante carico di dolori, di ricordi e di solitudine.

Era un sorriso compiaciuto il suo, perchè era stata esclusivamente merito suo la trasformazione da crisalide a farfalla, da ragazzina sparuta chiusa in uno spaventato silenzio ed in un informe cappotto di tre taglie più grande che mostrava più anni di lei (così le era apparsa al loro primo incontro) a quella donna bella, sicura di sé e elegante anche nella divisa che aveva indossato da subito senza neanche un'obiezione, e che ora le stava di fronte in rispettosa attesa. Per molti era la sua badante, per alcuni la domestica, ma lei, che in un atteggiamento a volte dispotico ed egoista, come spesso sono i vecchi, nascondeva la voglia di rivedersi giovane, l'aveva praticamente adottata e la considerava quasi definitivamente figlia sua. Una figlia nuova di zecca, per ripartire un'altra volta da capo, per riprovare a non commettere gli stessi errori, visto che gli altri, i figli veri, il sangue del suo sangue, passavano a trovarla solo quando erano a corto di quattrini, nella malcelata speranza di poter finalmente mettere le grinfie sulla sospirata eredità. Ma lei teneva ancora duro. Non gliel'avrebbe data vinta così facilmente, non ancora almeno. Con tutte le cose che aveva ancora da fare.

"Sono le cinque, cara". Visto che è una bella giornata calda prenderei volentieri il tè nel giardino. Preparati". Aggiunse un delicato "vai cara" e si girò nuovamente a guardare al di là dei vetri, verso la distesa di alberi, che nascondevano intatti tutti i suoi ricordi. Fuori da lì la voleva senza divisa, elegante e discreta.

Sveva aveva occhi limpidi della gente della sua terra. Occhi che guardavano lontano, verso il paese da dove, cinque anni fa, era stata strappata, lasciando la sua famiglia alla stazione a vederla partire, immobili nella loro disperazione dovuta alla necessità di vivere; sua madre, la vecchia nonna e due fratellini così piccoli che a pensarci ancora faceva male dentro; tutte le sue lacrime mute si erano confuse alle gocce di pioggia che rigavano il freddo vetro dall'altro lato del finestrino. Era partita aggrappata a quella maniglia di lucido acciaio senza più aver la forza di abbassarla e mettersi a gridare di aspettarla e di non crescere in sua assenza, mentre lei navigava verso l'incognita del nulla, per cercar di portare un pò di denaro dentro quella casa ed aiutare i piccoli a crescere. Era andata via. Quel giorno era morta in un piccolo pezzettino di cuore.

E sì che di denaro ce n'era un tempo, in quella casa. Non tantissimo, ma si stava bene, insomma. Era il tempo sereno di quando su tutto incombeva la tranquilla solidità di suo padre. "Il mio generale" lo chiamava affettuosamente sua madre, perchè era una presenza imponente, con un paio di baffoni che quando lei era piccola le facevano spesso il solletico sul collo e che gestiva da sempre la vita e le scelte della famiglia. D'altro canto organizzare le squadre al porto era stato il suo lavoro, e lo svolgeva bene, rispettato da tutti.

Per lei era assolutamente stato il grande amore di bambina, il suo porto sicuro al riparo dalle folate di vento impetuoso della vita. Era il suo punto di riferimento da sempre e sarebbe stato per sempre così. Non poteva immaginarlo diversamente. Da piccola aveva fatto un sogno che ogni tanto, ancora adesso, le capitava di rifare uguale. Lei ancora bambina ma indossava un candido abito da sposa ed era in chiesa, con suo padre elegante al fianco che la sosteneva, con il suo solito passo fermo e preciso, mentre la conduceva lento e cadenzato verso l'altare, infiorato ed illuminato da mille luci filtrate dai vetri colorati delle alte finestre. All'incrocio delle navate, al termine del tappeto di velluto rosso, ad attenderla sorridente con le mani protese ad accoglierla c'era un ragazzo alto e bellissimo, con un paio di baffoni imponenti. Suo padre da giovane. Si svegliava nella notte chiamandolo per nome, con il viso rigato di lacrime.
Invece la malattia se l'era portato via così in fretta da non lasciare a nessuno il tempo di capire e di disperarsi. Gli occhi di suo padre rimasero gli stessi anche alla fine, cosparsi di una dolcezza infinita mentre la guardava e non riusciva a comprendere che si sentiva morire. Lo seppellirono nel triste cimitero della loro cittadina una grigia mattina di metà febbraio, a meno di un mese da quando era andato a farsi visitare per un leggero fastidio la prima volta. L'aria lattiginosa ed umida profumava del salmastro del mare che, oscuro ed umorale, li stava pensoso ad osservare, al di là delle tante gru del porto, in quella piccola penosa processione di donne con il foulard annodato sotto il collo ed uomini con il vestito buono, dalle mani grosse e callose che maltrattavano nervosi i loro consunti berretti.

Le costose spese per ritardare l'inevitabile avevano rapidamente disseccato il magro gruzzoletto che in una vita erano riusciti faticosamente a mettere da parte. E così, di colpo, si erano ritrovati soli, senza un soldo e senza più nessuno al timone a condurre la loro esistenza. Sbandati.

Il lungo viaggio in treno le aveva regalato una nuova vita in Italia, a più di duemila chilimetri dalla sua Lituania. Proveniva da Klaipéda, industriosa cittadina di mare che si affaccia sul grande porto, e lì aveva vissuto fino ad allora, spostandosi solo per le brevi vacanze. Bionda come buona parte dei suoi connazionali, aveva splendenti occhi marroni che, nell'incanto del tramonto sul mare di piombo del Nord, spesso prendevano sfumature verdastre. Da quando era nata aveva respirato l'aria del mar Baltico e la sua pelle era stata abituata fin da piccola al freddo ed al vento tagliente dei lunghi e grigi inverni, quando la notte lascia il posto ad un giorno di poco più chiaro dell'ardesia. Aveva corso e giocato tra le gialle dune ventose spruzzate dalle chiazze dei lunghi steli d'erba nelle sue estati ed aveva passato interi pomeriggi a fantasticare sulle tante imbarcazioni che arrivavano e partivano. Quando il tempo lo permetteva, da piccola, andava spesso a prendere suo padre all'uscita del lavoro e lui, anche se stanco, immancabilmente se la metteva sulle spalle, le prendeva le mani nelle sue e le indicava i paesi lontani, confusi nella sottile linea d'orizzonte dove finiva il mare. Le raccontava mille cose: da dove arrivavano e dove andavano tutte le navi con i container colorati attraccate al porto, a cosa serviva ogni gru e le descriveva minuziosamente gli avvenimenti della giornata di fatica, conditi di particolari creati apposta solo per farla ridere. Con pazienza e affetto rispondeva tranquillamente a tutti i suoi infiniti perché di bambina. Con tenerezza la portava a vedere le regate delle barche a vela e poi se la riportava a casa in braccio, placidamente addormentata e cullata da quelle braccia forte create appositamente per lei.
[W.i.P. - Si sente che mi piace? Eh sì, signori, questa è Sveva!]

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