lunedì 20 luglio 2009

Appeso con due dita alla vita - Tomahwak 2

Adesso anche il tempo sembrava stare dalla sua parte. Il vento, che spesso in parete può essere un fastidio in più, adesso era una carezza fresca e leggera, che correva sui margini delle sue vecchie cicatrici e sui graffi arrossati che si era appena procurato; il sole caldo aveva asciugato in sottili crosticine le goccioline di sangue che ne erano uscite. La gamba sinistra gli doleva e guardando in basso vide nei suoi pantaloni neri, una sorta di fuseau con ideogrammi cinesi bianchi, un certo numero di buchi nuovi. "Mi sa che è proprio arrivata l'ora di buttarli", pensò.
Il tempo aveva ripreso a muoversi e lui anche. Sgranchendosi avvertiva male un pò dappertutto, ma era un male da lividi la sera, niente che un pò di sano Fastum Gel non avrebebbe potuto far passare in tre o quattro giorni. Magari domani mattina sarà sicuramente dura anche alzarsi dal letto, ma al limite basterà una telefonata in falegnameria. Tanto il "Mondo", (diminutivo di Edmondo), il padrone, una persona d'altri tempi come d'altronde era il suo stesso nome, che da tempo l'aveva quasi adottato e che lo trattava ormai come un figlio, avrebbe sicuramente capito e non avrebbe fatto storie. L'aveva già fatto altre volte, tutte le volte che gli capitava di salire qualche via impegnativa che magari richiedeva più giorni di quelli che aveva programmato, o quando era costretto a bivaccare in parete per il maltempo. Quando poi tornava si trovavano la mattina presto in falegnameria, si accucciavano di fianco alla stufa riempita di trucioli e, mentre Mondo preparava il caffè per tutti e due, lui gli raccontava tutto, tutto nei più piccoli particolari, in racconti che riportavano spensieratezza negli occhi azzurri circondati di rughe di un vecchio. Mondo in montagna c'era andato anche lui, ancora con le corde di canapa ed il berretto di feltro ed in falegnameria c'erano ancora impolverate dal tempo e dalla polvere di legno, vecchie foto in bianco e nero delle sue salite. Erano state quelle foto ed il libro di Emilio Comici "Tutte le mie cime" ad avvicinarlo alla roccia, e nello zaino di Paco c'era sempre la sua vecchia spilla in metallo del CAI, che Mondo gli aveva regalato per festeggiare la sua prima normale al Cervino.
Renato lo teneva ancora in tiro ed attendeva che ripartisse. Era in silenzio. Il comportamento del suo amico era strano, non era il tipo da fare l'istrione, non in prima persona, normalmente. Era disponibile a seguire le sue di mattane, ma di norma era molto più chiuso in quello che era il suo mondo. Intuì che c'entrava la persona alle sue spalle, ma c'era qualcosa di diverso che non riusciva ad agguantare. Paco puntò i piedi e si distese quasi perpendicolare alla roccia, come per stirarsi, poi si voltò verso il basso e con un sorriso gli fece in silenzio un gesto per dire quelcosa che non riuscì ad intendere. Poi piegò le gambe e gli disse semplicemente "vado su". E lui gli diede corda.
Paco aveva una visione molto più chiara adesso. Bruno era ormai quasi imprendibile, ma non gliene fregava assolutamente niente. I passaggi sembravano segnati con l'evidenziatore, la via era diventata un problema già risolto ancora prima di salire. Il piccolo gruppetto fermo a guardare voleva uno spettacolo che lui adesso era assolutamente in grado di dare. Invece aveva scoperto che quella là sotto non c'entrava niente. Non si trovava a quel punto per lei. Mentre volava i suoi pensieri si erano chiusi a riccio intorno all'immagine di una persona sola, quella che si era affilata le unghie nella sua anima. Le sue nuvole nere, che erano state un regalo d'addio, inspiegabilmente ora si stavano allargano, lasciando spazio ad un cielo nuovamente sereno.
In un paio di movimenti Paco si ritrovò a un metro scarso dal punto di prima, quando era volato. Una volta lì fece per prepararsi a mettere finalmente il rinvio quando ebbe un'idea. "Renè, te lo ricordi l'articolo su Alp della prima libera di Salathe?" Eccome se l'altro se lo ricordava. Era stata una salita magica in cui Alex Huber e socio, in sei giorni di arrampicata assoluta, avevano liberato una tra le vie più grandiose al mondo a El Capitan, nella Yosemite Valley; quello spettacolare servizio li aveva folgorati e loro due si erano trastullati a lungo con l'idea di una vacanza da quelle parti, cosa che economicamente non erano mai stati in grado neanche di ipotizzare. "Ti ricordi dell'espediente che aveva avuto per passare un punto cruciale la mattina presto?" Anche quel punto, Renato lo ricordava bene, e nel sorriso del ricordo un dubbio cominciò lentamente ad stringergli lo stomaco. "Non è quello che penso, vero? Non è che ci stai pensando davvero a quello che penso?" Gli chiese, con una nota di preoccupazione. Paco proseguì a ricordargli l'articolo: "Quella mattina, dopo una notte trascorsa sul portaledge a strapiobo sulla parete, Alex non riusciva a sentirsi in sintonia con la roccia ed allora ti ricordi come fece a ritrovarlo? Semplicemente è andato, con qualche centinaio di metri sotto, su di un paio di movimenti oltre il rinvio e poi si è lasciato cadere nel vuoto, sostenuto dall'amico, per due o tre volte se ben ricordo, fino a ritrovare il giusto feeling e superare poi, agevolmente il passaggio cruciale." Poi abbassò la voce, parlando quasi a se stesso, anche se Renato lo sentiva fin troppo bene: "Un grande, ecco cos'è quello. Veramente un grande. Mi domando cosa ha provato".
Inspirò e gli disse solo: "Vado", senza preoccuparsi di controllare se Renato era pronto.
E si lasciò cadere.

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